UN LIBRO AL MESE

 11  Aprile  2024

La crociera del Rottame Vagante

di Francis Scott Fitzgerald

“Anche se mi rendo conto che tecnicamente non è un successo, doverlo vendere per 200 dollari mi darebbe fastidio. Credo che sia meglio che lei me lo rispedisca; nel giro di un mese forse riuscirò a trasformarlo in un racconto breve, altrimenti lo incorporerò più avanti in un altro testo più lungo” Con queste parole Francis Scott Fitzgerald si rivolse ad Ober, il suo agente , dopo il rifiuto del Saturday Evening Post di pubblicargli questo racconto, rendendosi comunque disponibile ad eventuali tagli, ed infatti il racconto fu poi ridotto a circa novanta pagine - la lunghezza attuale - e venduto per trecento dollari alla rivista automobilistica Motor. Verrebbe quindi da sospettare, da dubitare, trovandosi difronte ad un racconto scritto per denaro, ma quando a scrivere é Francis Scott Fitzgerald, tutto è possibile. Infatti è un libro piacevolissimo e molto divertente, nonostante “l’artista“ venga qui superato dal “mestierante“, ma comunque assolutamente capace di saper trasformare un semplice viaggio in una rocambolesca avventura attraverso l’America degli anni Venti. 

In una mattina di luglio, inondata dal sole, Fitzgerald si sveglia nella sua camera da letto, nel Connecticut. Sposato da poco con Zelda, decide che quella è la mattina ideale per partire in macchina con la moglie per raggiungere il Sud e la casa dei suoceri in Alabama. E soprattutto per poter finalmente mangiare biscotti e pesche, “gialle e rosa, succulente“, invece che i soliti prosciutto, uova e pane tostato. Così, in un attimo, riesce a convincere la moglie della sua bellissima Idea e si mettono in viaggio dopo pochissime ore, il tempo per preparare i bagagli. Tutto bene, brillante idea, tutto sarebbe stato perfetto, se non ci fosse stata quella macchina! Una macchina del 1918, di seconda mano, della “altezzosa“ marca Expenso ( nome inventato dall’autore ) ma prontamente ribattezzata “Rottame Vagante“, per le sue condizioni non proprio ottime: “aveva la spina dorsale rotta, rimessa in sesto senza successo, ed il fastidio alla schiena che ne era risultato gli procurava uno sbandamento evidente su un fianco“. Certo non le migliori condizioni per poter affrontare un viaggio del genere, ma la gioventù e la spensieratezza ebbero la meglio, e anche quell’enorme desiderio di ritrovare il Sud. Armati di una strampalata e inattendibile cartina geografica, iniziarono l’avventura che avrebbe dovuto portarli a destinazione entro una settimana. E da quell’esatto momento la macchina decise, si mise proprio in testa di iniziare a fare le bizze, le più svariate e bizzarre possibili, meritandosi appieno quel nuovo nome di rottame vagante, vagando a velocità di crociera tra personaggi tra i più disparati, benzinai, meccanici, poliziotti, gente comune, entrando in paesaggi sorprendenti, a volte desolanti, piccoli villaggi, grandi città, attraversando stati, incurante di qualsiasi avversità ma pronta, nonostante i suoi deboli pneumatici, alcuni collassati, a portare a destinazione la giovane coppia - e proprio per questo - meritevoli di avere un nome proprio: Lazzaro (la ruota di scorta), Ercole e Sansone, Babbo Natale e Daisy Ashford. Attraverso sobbalzi pazzi e furiosi, il rottame arriverà alla meta, non senza aver fatto spendere una fortuna alla coppia Fitzgerald, ma……“ Essere giovani, destinati alle colline lontane, andare dove la felicità è appesa a un albero, giostrare attorno a un anello, vincere una ghirlanda variopinta…Era ancora una cosa possibile, pensammo, un rifugio contro la monotonia, le lacrime e il disinganno di tutto il mondo sedentario. “L’amore, la gioventù, la spensieratezza. La capacità di saper (e poter) ridere anche in condizioni avverse. E poi l’America, attraversarla on the road, lasciandosi sorprendere dalla sua camaleontica vulnerabilità.…“.  Il finale è poi tutto da gustare. E chiude in bellezza un racconto - secondo me - davvero ben riuscito.

 Marzo  2024

La lettera di Newton

di John Banville

“Mi sembra di essere stato solo un ragazzo che gioca sulla riva del mare, divertendosi a trovare ogni tanto un ciottolo più levigato o una conchiglia più bella delle altre, mentre il grande oceano della verità si stendeva tutto da scoprire di fronte a me.“ Queste le parole di Sir Isaac Newton che sono in esergo a questo breve romanzo (1982) dell’irlandese John Banville, un grande scrittore di cui mi ripropongo ogni volta di riuscire a leggere ancor di più. Non trovo eccessive le parole di Don DeLillo quando descrivono la sua scrittura: “Una scrittura limpida e tagliente come una lama…Un talento quasi feroce nel leggere l’anima degli uomini.“  Certo, ma c’è sempre da verificare personalmente la veridicità di qualsiasi affermazione e se, secondo il nostro parere personale di lettori, queste parole siano adeguate e corrispondano il più possibile al suo modo di narrare. Per quanto mi riguarda, le ho trovate oneste, ancor più oneste se di Banville abbiamo già letto più di un libro, almeno tre-quattro, come io ho fatto. Allora scopriremo con gioia che corrispondono appieno.“ Non avrei dovuto andarci. È stato il nome ad attrarmi. Casa Fern! Mi aspettavo … oh, mi aspettavo cose di ogni genere. Si rivelò un grande edificio coperto di edera e con i muri scrostati e una lunetta a ventaglio sbreccata sopra la porta, il genere di posto dove immagini una figliastra pazza rinchiusa in soffitta. “Comincia più o meno così questo romanzo, pur non essendo l’incipit. Ma perché mai un giovane scrittore impegnato nell’ultima parte della stesura del suo libro - una biografia di Isac Newton - decide improvvisamente di prendere in affitto una casa in campagna, non molto lontano da Dublino, per portare a termine il suo libro? Una decisione che risulterà immediata e poco ponderata, che quasi nulla ha a che vedere con il suo intento di concludere il libro al quale stava lavorando già da sette lunghi anni. Ma, se continuiamo a leggere, troveremo queste frasi rivelatrici: “…due donne mi vennero incontro in giardino. Una era grande e bionda, l’altra era una ragazza alta dalle braccia scure, con un cappello di paglia che cadeva a pezzi.“

Una è Carlotta Lawless, la ragazza con il cappello, che poi tanto ragazza non risulterà essere, l’altra, quella bionda e grande, Ottilia, la sua nipote venticinquenne. Queste due donne irrompono improvvisamente nella vita del nostro scrittore protagonista e voce narrante del romanzo. “Quell’odore come di latte “della signora Lawless, lo spingerà infatti ad offrirle immediatamente un mese di affitto anticipato. Ah, la potenza delle donne e che presa su questo giovane uomo impelagato nell’analisi degli ultimi anni della vita di Newton, nella sua crisi esistenziale che portarono lo scienziato ad interessarsi allo studio interpretativo della Bibbia e al più oscuro lavoro di alchimia che “tanto avrebbe imbarazzato i suoi biografi“. Ci sono due donne quindi, una campagna bucolica e verdeggiante, l’estate, l’attrazione e il mistero, forse l’amore. E impressioni- emozioni-sensazioni che inquietano il nostro protagonista portandolo lontano dal suo lavoro, avvolgendolo in una sorta di guaina melanconica.  Ma non ci sono soltanto due donne in questo racconto: ci sono anche un uomo ed un bambino, oscuri e impenetrabili, a rendere più complesse e articolate le possibili, quanto spesso velate, affinità elettive. Leggendo - naturalmente - il pensiero vola a Goethe, ma anche a Stevenson. Si impara ad osservare i movimenti all’interno della casa padronale guardando dalla foresteria, dove il nostro scrittore si era sistemato avendola affittata per tutto il periodo estivo, da cui osservava e imparava a conoscere le abitudini quotidiane di quella famiglia mai conosciuta prima di allora. Si entra all’interno di reti emozionali ed affettive, non immediatamente comprensibili, nella sorte di una ex ricca famiglia protestante in decadimento, le cui terre ormai sono andate ai gombeen, agli speculatori. Si percepisce l’atmosfera di quella strana estate del 1963, in una Irlanda rurale, mentre le osservazioni su Newton si alternano, anzi vengono sovrastate, da una certa impazienza di scoprire i segreti e gli imprevedibili moti del cuore. Ma anche quelli della carne, l’attrazione anche per ciò che non si ama ma che in qualche modo attira, incuriosisce, affascina. Così verso Ottilia: una forma di attrazione e di relazione sessuale senza amore, o almeno così pare, fino ad un certo punto. Ma l’amore? Forse Carlotta è l’amore? Così sembra. Una donna di mezza età, “decisamente“ sposata, con mani di mezza età, rughe intorno agli occhi… eppure. Eppure questo è il mistero imperscrutabile dell’amore, l’imprevedibilità in bilico sull’orlo del dire. E il dire a volte, come in questo caso, non può esser detto, ma solo taciuto, accarezzato, cullato come un segreto, alimentato nel sogno. Allora il tempo si contrae, si ripiega su se stesso fino a divenire traccia, memoria, eternità. Una sorta di deriva in un tempo sospeso, dove verità nascoste si fanno strada impetuosamente. Come conseguenza l’amore, in questo caso, si fa sottile, esile mentre le foglie iniziano a cambiar colore in attesa dell’autunno, di una nuova stagione dell’esistenza, che esplode impetuosamente rispondendo alla Vita con la vita, rispondendo ad un progetto unicamente tutto suo che va al di là dell’umano volere, dell’umano desiderare. Così non si può far a meno di ripensare ancora queste parole: “Mi sembra di essere stato solo un ragazzo che gioca sulla riva del mare …”. Niente di più perfetto delle parole del caro Isaac. Niente di più vero.              (STELLA  MARINA)

11  Febbraio  2024

I pochi e i molti

Romanzo di un’epoca

di Hans Sahl

“Nel primo terzo di questo secolo un grande popolo ricco di talenti cadde vittima di un fatale equivoco. Un uomo giunto dal paese confinante, un avventuriero, uno spiantato che voleva vendicarsi sull’umanità per la sua vita squallida, per certi motivi non ancora chiariti a sufficienza aveva saputo radunare intorno a sé una truppa di seguaci armati fino ai denti, determinata a prendersi il potere con la brutalità di un esercito invasore.“

Non conoscevo, prima di aver letto questo libro, lo scrittore tedesco Hans Sahl, più poeta che romanziere e infatti credo che questo sia l’unico romanzo che scrisse in tutta la sua vita. Ed è un peccato, perché il libro è davvero molto molto bello, tristemente bello: una - neppur troppo velata - autobiografia, che va sotto il nome di Georg Kobbe, suo alter ego, poeta e scrittore berlinese. Narrazioni in prima persona, pagine di diario, lettere si alternano a narrazioni in terza persona, dove ricordi di infanzia, flashback, cronaca e passato storico contribuiscono a render sempre più precisa la realtà storica e sociale di un’epoca tragica che va dalla fine della Repubblica di Weimar fino al 1945, quando terminò la seconda guerra mondiale. Ebreo tedesco nato a Dresda nel 1902, si trasferì poi a Berlino, di famiglia agiata, “laica e patriottica“, fu costretto all’esilio nel 1933, dopo la nomina di Hitler a Cancelliere del Reich. Cercò prima rifugio a Praga grazie all’amico Max Brod, poi a Zurigo, infine a Parigi. Ma anche qui, nel 1940, fu costretto ad esiliare, partendo da Marsiglia e tentando di raggiungere New York, dove, per sua fortuna e con l’aiuto di alcuni amici, riuscì ad arrivare. Lui è stato un “Memoriale vivente” e “ultimo testimone” della catastrofe che costrinse alla diaspora la migliore intellighenzia tedesca sotto il nazismo, ma purtroppo si deve constatare che a tale interesse non è corrisposta pari attenzione alla produzione letteraria. Esiste infatti presso il Deutsches Literaturarchiv di Marbach, tutto il suo patrimonio letterario, custodito in una sessantina di scatole - che comprende diari, manoscritti di poesie, racconti e schizzi drammatici, lettere, articoli di critica teatrale, cinematografica e letteraria, racconti…! Un uomo di lettere, di finissima cultura e notevole sensibilità, convinto della responsabilità politica che deve avere sempre la parola, l’unica in grado di poter raccontare la catastrofe e preservarla dall’oblio, infatti i due libri che maggiormente lo hanno influenzato sono stati “La condizione umana“ di Malraux e “Vino e pane“ di Silone. Ed è infatti la potenza della parola a dardeggiare fra le note scure e tragiche di queste pagine, nel racconto di una vita vissuta in esilio, e come diceva José Ortega y Gasset, gli unici pensieri autentici sono i pensieri dei naufraghi. Perché chi è costretto all’esilio è un naufrago, come lo è stato sempre Hans Sahl. Sfilano davanti ai nostri occhi città magnifiche, Berlino, Praga, Zurigo, Amsterdam, Parigi, Marsiglia. E naturalmente la salvifica New York. Sfilano maschere dell’orrore e della fame, drammi quotidiani di un popolo in fuga, di un uomo affamato, sfinito, in eterna fuga riuscito a fuggire da un campo di concentramento; “Mi sono coricato la sera tra gli affamati, e al risveglio ho udito i passi dei miei persecutori fuori dalla finestra, e ho dovuto nascondermi.“ “Ho preso parte a battaglie e apocalissi che si sono svolte in forme più che fragorose, e nonostante ciò, non sono diventato un eroe. Io sono solo un uomo del nostro secolo e questo è tutto.“ Un uomo che ha attraversato due guerre, e che essendo ebreo, risultava essere sempre dalla parte “sbagliata“, mentre nel Führer, l’uomo-massa senza volto di quegli anni, il soggetto anonimo che era ovunque e in nessun luogo, si era ufficializzato. La ferocia mostruosa di un’epoca che arrivava a costringere degli esseri umani a inginocchiarsi, a mangiare l’erba, a trascinarsi su quattro zampe come i cani. La sua missione di scrittore è stata quella di tentare di mettere in guardia il mondo dal pericolo che incombeva e che - purtroppo - continua ad incombere. Non aveva a disposizione altre armi che la parola. Per questo è importante leggere questo libro, entrato nel canone novecentesco come una delle testimonianze più importanti della Exilliteratur mitteleuropea, come ci suggerisce Enrico Arosio, curatore di questa edizione Sellerio. Andrebbe letto assieme ai libri di Anna Seghers, a “La svolta“ di Klaus Mann, a “Il mondo di Ieri“ di Stefan Zweig, a “Schiuma sulla terra“ di Arthur Koestler. Ascoltare le parole di questi esuli e di questo naufrago spiaggiato dalle onde su un litorale sconosciuto, sul rovescio della vita nella vita stessa. Una sua poesia, che ci accompagni in questo oscuro periodo e ci aiuti a non dimenticare mai. 

“Noi siamo gli ultimi. Chiedete pure. Ce ne intendiamo. Portiamo appeso al collo lo schdario delle segnaletiche dei nostri amici come gli ambulanti la loro casetta.  Studiosi vanno a caccia di liste della spesa appartenute ai dispersi, musei serbano appunti della nostra agonia come reliquie sotto vetro. Noi, che sprecammo tanto tempo per comprensibili motivi, siamo diventati rigattieri dell’ incomprensibile. La nostra sorte è tutelata dai Beni culturali.  E il nostro miglior cliente è la coscienza sporca dei posteri. Fatevi avanti, servitevi. Noi siamo gli ultimi. Ce ne intendiamo."   (Stella Marina)

11  Gennaio  2024

Mecca

di Susan Straight,

“Larette, te la ricordi la festa ad Anza Crossing, vicino al fiume? All’epoca io ero l’unica già fidanzata. Voialtri, a quei tempi, vi stavate tutti innamorando. Te la ricordi quella canzone di quel vecchio rockettaro bianco che piaceva tanto a Johnny e a Grief? Da dove avevano preso ispirazione per il nome, Free Ride?“

Primo romanzo tradotto in Italia di questa scrittrice californiana, Susan Straight. Riccardo Duranti ne è stato il traduttore per NNEditore. Lei è anche autrice di una mappa della letteratura americana, consultabile sulla bandella posteriore di copertina di questo libro inquadrando il qrcode. Un viaggio nel viaggio di questo romanzo che suggerirei di fare appena terminata la lettura del libro. È un crocevia di romanzi, autori, luoghi, che potrebbe renderci infinito e senza fine questo viaggio… Ma torniamo a la “Mecca“, zona-comunità californiana nella contea di Riverside. Una California poco nota, osservata dalla parte degli immigrati, magari dallo sguardo e dalle vite dei figli e dei nipoti di quegli immigrati, che con difficoltà si sono inseriti e cercano di inserirsi nel tessuto sociale di un’America che ha stentato - e stenta - a riconoscerli come suoi cittadini, considerandoli principalmente stranieri, relegandoli in una terra difficile da conquistare e dai confini pericolosi e selvaggi, arida e rocciosa, pronta ad esplodere in incendi devastanti e spettacolari, attraversata da strade leggendarie. Gli echi di un Messico atavico e mai dimenticato, la forza di una comunità di “stranieri“ come antidoto alla solitudine e alla disperazione. Il colore della pelle che molto spesso li mette in estrema difficoltà, devono pagare, espiare colpe che non hanno mai commesso ma è troppo facile trovare sempre un capo espiatorio che riporti la comunità ad una apparente tranquillità e a una sorta di giustizia che non corrisponde, e mai corrisponderà, a vera giustizia; così risulterà  fin troppo semplice poter “scambiare“ un telefonino per una pistola. Lo sguardo della scrittrice si sofferma su queste vite, sulle loro relazioni, sul loro mondo, sulla loro lingua, sui legami con gli avi, con la terra, con la natura. Impariamo da lei i nomi di sconosciuti, e proviamo ad immaginarceli illuminati da una volta celeste strabordante di stelle, da Liridi spendenti, rese più luminose e vivide dai ricorrenti lookdown per coronavirus. Insieme a loro soffriamo per le ingiustizie subite, per il loro dolore, spesso per le loro morti ingiustificabili, specialmente quella di Tenerife e di sua mamma. Per quell’essere indifesi e già colpevoli, mentre tentano di farsi una vita il più possibile normale, nonostante malattie, salari al minimo , tradimenti, divorzi, problemi con la lingua, che a volte rende difficile la comunicazione e il farsi comprendere. Ma c’è una forza potente che li tiene uniti, quella piccola comunità di reciproco aiuto in quella terra arsa dal sole e dal caldo opprimente e insopportabile, da cui è quasi impossibile trovare rifugio. Ci piace entrare in intimità con queste persone, scoprirle, iniziare a conoscerle, seguire le loro vicende che si alternano in maniera scomposta ed immediata, come se ognuno di loro avesse urgenza di raccontarsi ed improvvisamente decidesse di inserirsi nel discorso, interrompendo però chi già stava parlando. Ma ognuno avrà tempo per parlare e per raccontarsi, e quando tace è solo per riprendere fiato e permettere all’altro di entrare nel racconto. Non si perdono i fili come qualche lettore ha sottolineato, ma si legano uno con l’altro, per renderli più forti. Perché è insieme che vogliono raccontarsi in questa California che forse singolarmente li annullerebbe, mentre il vento impetuoso vorrebbe invece spazzarli via dalla faccia della terra. A me queste irruzioni sono piaciute molto, le considero un punto di forza del romanzo, un modo molto interessante di raccontare. Personaggi forti e ostinati, che vanno avanti, nonostante tutto. Johnny Frías, in sella alla sua Harley, poliziotto della stradale, con un segreto forte e disperante sul cuore, un delitto inconfessabile che - se scoperto -, potrebbe minare la sua carriera, conquistata con estrema fatica. Dritto e sicuro viaggia su quella linea che si trova tra la corsia riservata e quella veloce, attraversando in lungo e largo parte della California. É uno dei personaggi che più ho amato, a suo modo un angelo della giustizia, che ci regala il panorama splendente di Fuego Canyon e i suoi indimenticabili tramonti: “i bordi blu delle nuove tenebre che scendevano mentre il cielo decideva come avrebbe fatto girare il mondo“.

La giovane Ximena, che clandestinamente ha attraversato il confine con il Messico, e clandestinamente è costretta a vivere con la sua famiglia, sempre in pericolo e con il terrore di essere rispedita indietro dalla ICE. La donna di colore Matelasse, scambiata spesso per messicana, che deve crescere i figli da sola perché il marito è scappato in Brasile -la sua ossessione di sempre- amore che alla fine ha prevalso sull’amore per la famiglia. Grief, Bobby e Manny. Reynaldo. Tyrone, Larette. Lena. Trish. Merry. Dante, Tenerife e altri dei nomi di questa storia corale. Ivy, naturalmente. E la signora Bunny …E naturalmente i coyote, le linci, i cani inselvatichiti. I ladri di rame. “Dite solo: sono nata a Mecca. Ho abitato qui tutta la vita. Mostrate loro il documento. Guardate sempre davanti a voi il punto dove il cielo e la terra si toccano. Tenete i denti coperti dalle labbra.“

E i consigli delle nonne andrebbero sempre seguiti, bisognerebbe ricordarselo.  La nonna di Ximena le diceva sempre che se lei fosse riuscita a trovare un pezzetto di bellezza tutti i giorni, avrebbe potuto continuare a vivere. Qualsiasi cosa fosse accaduta. Anche un semplice chicco di caffè con una fossetta può essere bellezza e così aveva dato un chicco a Ximena, perché si ricordasse, tenesse sempre a mente questo suo consiglio. Ecco, un semplice chicco di caffè in ogni tasca, ogni giorno. E una manciata di parole, gettate nel buio per farle risplendere…                       (Stella Marina)

11  Dicembre  2023

Nemico pubblico

di Marina Cvetaeva

Marina Ivanovna Cvataeva ci ha lasciato pagine e libri bellissimi. Nata a Mosca l’8 ottobre del 1892, morì sul finire del mese di agosto del 1941. Figlia d’arte, il padre filologo di fama europea, fondatore e curatore del Museo delle Belle Arti, la madre pianista, e lei stessa, che iniziò a comporre poesia fin da piccolissima. Parlo con molto piacere di lei, di Marina, perché l’ho amata, e la amo, moltissimo. Una delle mie scrittrici e anime di riferimento. Ho trascorso interi pomeriggi tra le sue pagine, soprattutto poesie, e tra le sue lettere: Il Paese dell’anima (1909-1925) e anche Deserti Luoghi (1925-1941). Alcune parole rimarranno sempre con me, nel ricordarla o pronunciando il suo nome, che un po’ appartiene anche a me. 

Fin dalla nascita sono stata respinta dalla cerchia delle persone, dalla comunità. Dietro di me non c’è un muro vivo, c’è una roccia: Il Destino. Vivo osservando la mia stessa vita -tutta la vita- la Vita! Non ho età né volto. Forse sono io la Vita stessa. Non ho paura della vecchiaia, non ho paura di essere ridicola, non ho paura della povertà, dell’inimicizia, delle calunnie. Sotto il mio involucro allegro e infuocato sono una pietra, e cioè invulnerabile. Solo Alja e Serëža. Non mi importa se domani mi sveglierò con i capelli bianchi e le rughe - poco male! - creerò la mia Vecchiaia - ho comunque avuto così poco amore! Vivrò le vite degli altri. “(febbraio 1920). Morì giovane, togliendosi la vita, ancora senza capelli bianchi ma con pochissimo amore, senza che le sue parole venissero ascoltate nella sua terra, né accolte. Nessuno le fu di aiuto.“ La sua lettera supplica, come una molla, la sua giusta pretesa da cittadina, l’ultima interpellanza per la sopravvivenza, rimase senza risposta inabissandosi nei meandri nel Cremlino, ed è stata ritrovata recentemente da due studiosi russi nel fascicolo giudiziario che istruì il processo a Efron. 

Questo piccolissimo, breve libro, testimonia come un vero atto di accusa la sorte della scrittrice e della sua famiglia. È la lettera che la poetessa russa spedì al “compagno Berija“ -principale collaboratore di Stalin nelle grandi purghe del regime- il 23 dicembre 1939. Berija era in quel momento Commissario del Popolo per gli Affari Interni, capo dell’NKVD, “onnipotente” in anni in cui l’arbitrio era totale. La lettera la inviò per tentare di salvare le vite del marito e della figlia, arrestati “per errore, magari una dilazione, forse un equivoco, certamente un sopruso.” Tutto sarà comunque inutile, la voce della poetessa non verrà ascoltata e la figlia Alja resterà imprigionata nel gulag per diciotto anni, mentre il padre sarà fucilato, due anni dopo la lettera di Marina a Berija. Ma lei questo non poté saperlo mai, morì nell’agosto del 1941: “Da un anno misuro la morte. Non voglio morire, voglio non essere.“ Troppo dolore, troppa solitudine, troppo freddo. Troppa fame. Troppo silenzio. Troppo vuoto. Troppe assenze.  Troppo niente. La lettera è diretta, essenziale, asciutta nei toni, una ventina di pagine, un invito alla giustizia. Ricorda la sua famiglia, i genitori, ricorda i suoceri e il marito “un uomo che ha servito la sua patria, e l’idea del comunismo con anima e corpo, con la parola e nei fatti. È malato grave, non so quanto gli sia rimasto da vivere, soprattutto dopo un simile trauma. Sarebbe terribile che morisse senza essere assolto.“ Fu fucilato il 16 ottobre 1941. 

L’edizione di questo libricino, piccolo solo nelle dimensioni, ma ampio come la Vita, pubblicato dalla casa editrice De Piante, è rilegato a mano con un filo verde sottile, che tiene insieme queste pagine di pregiata carta -cottage ivory- con copertina su cartoncino Tintoretto Gesso, e fa parte della collana Gli Aurei. L’edizione di questo libricino, piccolo solo nelle dimensioni, ma ampio come la Vita, pubblicato dalla casa editrice De Piante, è rilegato a mano con un filo verde sottile, che tiene insieme queste pagine di pregiata carta - cottage ivory - con copertina su cartoncino Tintoretto Gesso, e fa parte della collana Gli Aurei. Si sfoglia lentamente, ogni parola va ascoltata, il libro leggero pesa sul corpo, la mano sembra non poterlo sostenere. Sono destini senza speranza che si affidano alla nostra memoria, per questo la carta fa rumore appena la si sfiora. Le parole ultime le pronuncia Adriana Efron -Alja- la figlia di Marina, in una lettera a Boris Pasternak datata 28 agosto 1957. “Comunque sono riuscita a vivere fino a vedere molte cose, grazie al destino, a Dio, agli uomini. Ho vissuto fino all’incontro con te ed ecco ora, fino all’incontro con le sorgenti stesse della vita e della creazione della mamma, ho vissuto fino alla mia personale preistoria!“ Occhi enormi, da veggente. Curerà tutte le opere della madre. 

“Ubbidivo, cercavo faticosamente con l’udito il compito sonoro già assegnatomi.“ (Marina Cvetaeva). Le poesie, a volte, servono per rincorrersi, per costellare una vita di nodi, si legge nell’ultima frase della nota al testo. E questi nodi ci appartengono, sono stati fatti proprio per noi.    (Stella Marina)

11  Novembre  2023

Febbre di carnevale.

di Yuliana Ortiz Ruano

 Yuliana Ortiz Ruano è una giovane scrittrice e poetessa ecuadoriana, della città di Esmeraldas, sulle sponde dell’Oceano Pacifico. Questo è il suo primo romanzo, tradotto in italiano da Marta Rota Núñez per edizioni Sur. Non so esattamente dire fino a che punto mi sia piaciuto questo libro, nonostante la splendida immagine di copertina, una illustrazione di Francesca Pignataro che ritrae perfettamente l’anima di questo libro, la giovane protagonista me la sono immaginata esattamente così, piena di treccine tra i capelli, nerissimi, libera, immersa completamente nella natura mentre balla da sola, in una calda-umida giornata di sole. Infatti, già a poche pagine dall’inizio, lei esordisce così: “Me ne sto tutto il giorno sull’albero che c’è nel giardino della mami Nela, a parlare con le guaiave. Anzi, parlo più coi vermi che abitano nelle guaiave. Gli chiedo come sono arrivati fino al cuore della rosa di quei frutti, com’è stata possibile quella vita pulsante dentro una guaiava.“

Lei si chiama Ainhoa, ha otto anni ed è la voce narrante e la protagonista del libro. Il mondo è visto attraverso i suoi occhi, un mondo complesso, variopinto, pieno di violenza ma anche di musica, di estreme contraddizioni difficili da comprendere e da decifrare, soprattutto per una bambina. Alcool, sesso, droga, tradimenti, erotismo, sensualità, violenza. Una Natura prepotente e splendente, il mare che sembra promettere orizzonti infiniti, mentre l’acqua dovrebbe sciogliere ogni dolore. La ricchezza nelle mani di pochi, una povertà infinita in una terra abbandonata completamente a se stessa e al traffico della droga. “La casa della mia mami Nela si trova a metà tra due quartieri, letteralmente. Poco più su della scuola dell’Immaculada, e quando dico letteralmente è perché c’è come un velo invisibile tra loro e noi, una linea sottile che divide la parte buona da quella cattiva. Una separazione che cresce nelle parole : in gioiamia, non devi mica andarci in su di là, capito?“

Guai oltrepassare quella linea, ogni certezza, sicurezza e incolumità svanirebbero all’istante. E questo Ainhoa lo ha imparato molto presto. La sicurezza è garantita, anche se mai in modo assoluto, soltanto nella grande casa della bisnonna, dove vive con la nonna, “a volte“ con  il nonno, i genitori , le zie e la sorellina. Gli uomini della famiglia entrano ed escono dopo sbornie e tradimenti, le donne sono strettamente legate tra loro, mentre il ritratto della bisnonna veglia sulla casa, osserva ogni movimento, sembra suggerire e imporre la sua volontà; “lo sguardo della levatrice Doma, lo sguardo di una dea nera, nerissima, su tutte le cose.“ La casa è delle donne, sono loro a renderla viva, sicura e accogliente. Gli uomini si portano dietro violenza, loschi affari, armi, sbronze e alcool, così anche il padre Manuel, quel “meraviglioso zoticone gonfio di whisky e cristalli marini, atterrato per sbaglio nel mondo dei padri.“

Sono le donne di casa ad insegnare a Ainhoa, ad esempio tata (zia) Antonia le insegna la poesia, “la sua voce morde le poesie“, la mamma- mami Checo, donna d’acqua, “riesco a vederle le onde in quella pelle meravigliosa che ha “, fatta di acqua impetuosa che sgorga e zampilla. La mami (nonna) Nela, maestra rurale, guaritrice, mezza strega, nerissima e immensa come un vecchio tronco, alta e corpulenta. E tutte le altre zie, ognuna insegna qualcosa a Ainhoa, che sta crescendo, sta imparando a vedere, a sentire la vita, a sentire l’ebrezza della musica nel corpo, che esploderà in tutti, lei compresa, in quei giorni del Carnevale. Ogni cosa verrà dimenticata, per far posto a questo delirio collettivo, estasi alcolica, sesso e danze sfrenate a tutte le ore del giorno e della notte. Il Carnevale sommerge come un’incontenibile marea la misera e travagliata vita di ogni abitante di questo Stato dell’America del Sud. “Prima che arrivi febbraio a Esmeraldas è già carnevale, la gente si bagna sulle terrazze, per la strada, in sala e nelle camere da letto.“  La gente del quartiere si bagna sui marciapiedi mentre balla sfrenata, dimenando il sedere e i fianchi, come se fossero quelli a regnare sul sentiero della vita. “O forse i sederi e i fianchi lo reggono davvero, questo mondo Esmeraldeño di salsa, follia e delirio carnevalesco?“

Il mio corpo, ci racconta Ainhoa, comincia a ribollire da solo, a pizzicare tutto quando arriva gennaio e gli abitanti della repubblica indipendente della delizia indipendente, dichiarano l’autonomia carnevalesca. Torna il caos e regna la licenza. Tutto è permesso; scompaiono le gerarchie abituali, le differenze sociali, i sessi, le classi, i gruppi. La Festa è innanzi tutto il verificarsi dell’insolito, scriveva Octavio Paz in quello splendido libro che è “ Il labirinto della solitudine “. E tutto succede come se non fosse sicuro, come nei sogni. La festa come il rovescio brillante dell‘apatia e del silenzio. Un trucco magico per nascondere la vertigine della morte, della solitudine, del nulla. L’orgia come rigenerazione genetica. Il carnevale come una pausa, come una rinascita, prima di ricadere nel baratro disperante della vita di tutti i giorni. La musica che salva e libera, sfrenata e sensuale, un riappropriarsi dell’io, del proprio corpo, per poi lasciarlo nuovamente andare. Difronte a questo mondo la bambina è incerta, non sa se valga la pena crescere, “io non voglio che nessuno mi tocchi, voglio solo rimanere per sempre sull’albero di guaiava. “Arrechera y calentura“: il demonio del Carnevale. Nessuno ne può uscire indenne. E neppure lei riuscirà ad uscirne indenne. Avrà visto, attraversando quella proibita linea sottile, la vita danzare con la morte. Avrà visto il male, il delirio, il non senso. “ Crescere è triturare il cervello dentro un frullatore d’ossa chiamato cranio“. 

La scrittura a tratti è vertiginosa, carnale e profonda. Scava tunnel silenziosi dentro il corpo per trovare l’acqua, il sale, tutti gli atomi della vita, della gioia e del dolore. Una favola nera con un finale “bellissimo“, che lascia molte domande, infiniti suoni e alcune perplessità. Ma forse le perplessità sono risolvibili, basta annullare ogni giudizio. Solo ascoltare. Bisogna solo ascoltare.         (STELLA MARINA)

11  Ottobre  2023

Una conversazione

(im)possibile

Luigi Pirandello-Leonardo Sciascia

 Uno di quei libricini che uno tenderebbe a sottovalutare, relegandolo a libro da tasca, da passeggio, da leggere in quella mezz’oretta di pausa concessa dal quotidiano, e invece… E invece ci si trova subito immersi in una bellissima “conversazione impossibile“, resa possibile grazie alla maestrìa e soprattutto alla conoscenza di Matteo Collura, già autore della biografia di Leonardo Sciascia, “Il maestro di Regalpetra“, e della biografia romanzata di Luigi Pirandello “Il gioco delle parti“. Fare incontrare i due scrittori siciliani per lui è stato uno scherzo, un perfetto gioco da affabulatore. Ricordandosi delle famose Interviste impossibili del 1974-75, quando scrittori come Arbasino, Eco, Giorgio Manganelli fecero parlare alla radio personaggi morti da secoli. Così l’idea si è poi sviluppata, ricordandosi le parole che Pirandello fa dire ad un suo personaggio di un suo libro: “È mia vecchia abitudine dare udienza, ogni domenica mattina, ai personaggi delle mie future novelle. Cinque ore, dalle otto alle tredici (Novelle per un anno)…”.

Così viene reso possibile, con nostro grande diletto, l’incontro tra i due scrittori, in una domenica mattina, esattamente alle ore 13:00. Un po’ fuori tempo massimo, al limite del possibile, come è giusto che sia. E mentre Pirandello parla a voce alta con parole tratte dalle sue Novelle per un anno, appare Leonardo Sciascia, incantato dal suo parlare, dai suoi personaggi in cerca d’autore. Inizia una conversazione sghemba tra due scrittori che non si sono potuti conoscere, frequentare, per ovvi motivi, nella vita reale, ma Sciascia, al contrario di Pirandello, ha potuto leggere ogni cosa dell’altro, vivere l’emozione del suo teatro soprattutto “leggendolo“ e dimostra di conoscerlo molto bene, intimamente,  mentre Pirandello, al contrario, non può che ignorare Sciascia, ma lo impara a conoscere attraverso le sue stesse parole, davanti al nostro sguardo, in quel breve e sospeso lasso di tempo intorno a quelle ore 13:00, fino a rimanerne completamente conquistato. Non può che constatare di trovarsi difronte ad un fine e sottile lettore, conoscitore della letteratura e di sublimi scrittori. La triade molto amata da Sciascia, sopra ogni altro possibile scrittore, é sempre stata quella formata da Pirandello, Kafka, Borges, tanto da farlo affermare: “… e come  Bertrand Russell diceva che tutta la filosofia occidentale non è che un’annotazione a margine a Platone, con eguale carica di spregiudicatezza, di paradosso, di estremismo, mi pare di poter dire che tutta la letteratura di questo nostro secolo è un rameggiare, uno svolgersi, un respirare (e anche un dibattersi) da questi tre scrittori.“

L’occasione per la scrittura di questo libro è dovuta ai festeggiamenti per la ricorrenza del centenario della nascita di Leonardo Sciascia, e riuscire a trovare qualcosa di nuovo da dire, e possibilmente da aggiungere, sul grande scrittore siciliano e contemporaneamente celebrare la grandezza di Luigi Pirandello, suo indiscutibile punto di riferimento in tutta la sua produzione letteraria; “si potrebbe dire che ho introdotto il dramma pirandelliano nel romanzo poliziesco. “Questa fu il salotto di casa Manzoni, a Milano. Poi l’idea della pubblicazione di questo “volumetto“ cartaceo, che mi pare un grandissimo dono, anche perché ogni lettore la conversazione può immaginarsela e leggersela come più desidera. Così è, se vi pare, appunto. E se non vi pare…pazienza.

Si riflette molto mentre si legge, prima di tutto su questi due grandissimi autori italiani, da rileggere sempre, continuamente, in seguito si riflette sulla letteratura di oggi, come è oggi, e infine su una letteratura possibile, come sarà e come dovrebbe essere, a cosa dovrebbe essere capace di rispondere. O su cosa dovrebbe interrogarsi. Come diceva Sciascia a Domenico Porzio: “Sono finiti i caffè letterari, il colloquio stesso. Eppure colloquiare significava non soltanto chiacchiera, ma esperienza, urbanità. “Ed è anche per questo motivo, questo colloquiare intimo, urbano, tra Pirandello e Sciascia, che ho amato moltissimo questo libricino. Questo creare letteratura davanti al nostro sguardo, un po’ disabituato a tanta grandezza, a tanta finezza di intenti, a tanta genialità. Vediamo prender forma la creazione artistica mentre tenta di aderire al mistero della vita in modo del tutto personale, individuale (“ogni scrittore è scrittore a modo suo ) ma allo stesso tempo elevandosi a risposta (o domanda) universale.  Da qualsiasi punto del mondo provenga, un grido dovrebbe riverberare nell’animo di ognuno, producendo un eco di risonanza. Scuotere le menti e i cuori. Lasciare una traccia. Insinuare un dubbio in questa “bizzarria” della vita. “È questa la letteratura, caro signore, questa dei cortili profondi e bui e senza uscita… Il resto è miserabile cronaca fatta di ladronerie, di malgoverno, di ignobile sopravvivenza. Il mistero che circonda ogni individuo capitato sulla terra: questo fa grande la letteratura!“

Fatevi davvero un regalo: leggetevi questo libricino, libriccino o volumetto di 68 pagine. Portatelo con voi. Sottolineatelo. Ascoltatelo. Fatelo affiorare alla mente quando vi verranno dei dubbi o anche se dubbi non ne avrete, anche in una tersa giornata di ottobre che sembra piena estate mentre il mare vi richiamerà alla memoria l’origine della specie, il colore verde-azzurro, la bellezza ingombrante della Sicilia, quella che, come diceva Gesualdo Bufalino “si sporge da un crinale di vento in un accesso di abbagliante delirio.“  Seguitelo!

11  Settembre  2023

Ritorno dall’Universo

di Stanisław Lem

“Come ti chiami?“, chiese. “Bregg. Hal Bregg. E tu?“. “Nais. Quanti anni hai?“. Che belle usanze, pensai, ma c’è poco da fare, si vede che bisogna comportarsi così. “Quaranta, e allora?“. “Niente, pensavo che tu ne avessi cento“. Sorrisi.

Hall Bregg è appena tornato sul pianeta Terra dopo una lunga spedizione galattica sul Fomalhaut durata centoventisette anni terrestri, ma che risultano essere “soltanto“ dieci se viene calcolato il tempo di navigazione e ventitré anni-luce. Biologicamente quindi Hall ha quaranta anni, ma ha centocinquantasette anni terrestri. Come sarà ritornare sulla Terra dopo così tanti anni? Cosa e come sarà cambiato il pianeta dopo che lui, assieme ad altri ventidue membri delle due astronavi della spedizione, avevano abbandonato tutto, immolandosi totalmente alla scienza e all’astronomia? Tutto questo Hall dovrà comprenderlo molto rapidamente, per riuscire a sopravvivere ma soprattutto per trovare la forza di sopravvivere e continuare a vivere in un luogo completamente diverso da quello che aveva lasciato alla sua partenza. E dovrà farlo da solo, perché alcuni dei suoi compagni di viaggio sono intanto morti, mentre gli altri, più o meno, sono andati o andranno ognuno per la propria strada. Nulla è più come prima. Assolutamente nulla. Tutto appare ostile e senza senso, come se la vita umana si fosse svuotata del suo significato più vero, più vivo, più intimo. Hall viene investito da un senso di esclusione incredibile, assoluta. Già a pochi minuti dopo l’atterraggio, la scritta “strato“ e subito dopo la scritta “ terminal “, introducono il protagonista in questa dimensione altra, mentre l’apertura delle quattro porte ovali del missile di ritorno, lo risputano sul pianeta Terra dove tunnel verticali vorticano su più livelli e veicoli piatti li attraversano di continuo e sembrano accoglierlo al solo scopo di disorientarlo, di respingerlo, di alienarlo. Gli esseri umani, i nuovi esseri umani, sono vestiti in modo alquanto bizzarro, ricoperti di iridescenze quasi metalliche, alcuni con fantasie a cerchi molto simili ad occhi di pavone che sembrano davvero reali, in movimento. Tutta l’architettura sembra fatta di moto, di mutamento. Difficile trovare per Hall l’uscita di quella stazione fatta di luci, di piani rialzati, di incomprensibile caos, ma un caos quasi ordinato, quasi monotono, quasi atrofizzante. Le automobili non esistono più, di tutto il mondo di ieri, tanto per citare Zweig, non c’è più traccia. Esistono i glider, una sorta di macchine volanti, esistono case che sembrano fuse nel vetro, tutto sembra trasparente, liquidi colorati come sciami di lucciole animano tutta questa materia che ha consistenza d’aria. Tutto appare visibile, trasparente, ma allo stesso tempo risulta impalpabile, sfuggente, quasi irreale. Il linguaggio tra gli uomini è accessibile ad Hall, ma allo stesso tempo assolutamente incomprensibile. Le conversazioni lo turbano, lo disorientano, trova incredibile il nuovo modo di vivere dell’essere umano, straniante. Una donna piacente, una delle tre donne di questo libro, lo informa di alcuni dettagli, di alcune nuove regole di vita che sembrano impossibili da comprendere per lui. Sembrano essere queste nuove regole una vittoria del genere umano, ma forse sono solo la sua più grande sconfitta, un’atrofia emotiva che non ha eguali. All’improvviso una parola ostile si fa strada tra le molte domande che Hall rivolge alla donna, un verbo incomprensibile spunta in questo deserto di sentimenti che è diventato il pianeta Terra, un verbo quasi mostruoso, con un suono così definitivo: betrizzare. La vita sulla terra adesso è dominata da questo verbo. Il nuovo mondo respira in questo stato di assenza di passioni, non esiste più la paura che ha sempre dominato e mosso il mondo, c’è una pace costante e assolutamente priva di pericoli. Tutto il lavoro “sporco“, quando c’è, è affidato a dei robot, l’uomo può svolgere e vivere una vita totalmente serena. Ma le emozioni esistono ancora? I ricordi che valore hanno? Gli istinti, la passione, il desiderio, la lotta, la ferocia… l’amore? Il tempo? La meraviglia, lo stupore, il desiderio di superare se stessi? Il senso del rischio e della scoperta? La curiosità? Betrizzare sembra essere l’unica risposta del nuovo mondo: distruggere nell’uomo il possibile assassino, rendere le persone non aggressive. Questa la sola e unica conquista che sembra giusta e possibile ed è stata realizzata su scala mondiale e su ogni essere umano. Questo il mondo raccontatoci da Lem in “Ritorno dall’Universo“ in cui esplosioni pirotecniche di immaginazione si alternano a profonde riflessioni filosofiche. Una cattedrale trasparente di visioni dentro cui si muove l’incerta, paralizzata, microscopica essenza umana. Riferimenti storici non sono poi tanto velati, la distruzione di Leopoli e della popolazione ebraica che vi abitava, quell’ essersi “salvato“ dello scrittore ed essere quindi un sopravvissuto che lo rendono molto simile al protagonista di questo libro. Il senso di colpa, gli istinti suicidi, il sentirsi estraneo in un mondo in cui non si riconosce, in cui si sente estraneo. I robot e la loro agonia meccanica a ricordare - a ricordarci - lo sterminio di massa degli ebrei. 

Sotto traccia, e non poi così tanto velatamente, i grandi disastri della storia, l’impalcatura romanzesca come un perfetto allestimento teatrale con una scenografia pazzesca, in cui l’uomo recita da solo davanti a se stesso. Nudo. Inerme, con in mano un piccolissimo cuore trasparente. Sopra di lui, il cielo stellato. Sotto di lui, luci al neon che esplodono nella notte come fuochi d’artificio.    (STELLA MARINA)

11  Agosto  2023

Everyman

di Philip Roth

Everyman: ognuno, ogni uomo, ognuno di noi, nessuno escluso. Nessuno mai: fino a prova contraria. E allora citando ancora una volta le parole di John Keats in esergo al libro: “Qui dove stanno gli uomini, ascoltando gli alterni lamenti; dove un tremito scuote gli ultimi radi e tristi capelli grigi, dove la giovinezza impallidisce, si fa spettacolare e muore, dove il solo pensare è tutto un tormento…”

Esattamente così, con queste parole mi piace introdurre questo romanzo di Philip Roth pubblicato nel 2006. Un romanzo breve che non lascia vie di uscita al lettore ma che lo pone difronte alla inesorabilità della morte, della malattia e della vecchiaia. La copertina Einaudi è infatti tutta nera con quel titolo così essenziale stampato in bianco, definitivo, imparziale, assoluto. Il romanzo inizia in un cimitero durante il funerale del protagonista, un cimitero in rovina vicino all’aeroporto con il costante rumore di un’autostrada, la New Jersey Turnpike. Un luogo dunque non silenzioso, ma con la consolazione per il protagonista di avere accanto le persone che lo avevano amato in vita, i suoi genitori sepolti lì molti anni prima. Pubblicitario di successo, poi pittore per passione, il protagonista ha avuto una vita intensa, tre mogli, tre figli, due dei quali non lo hanno mai stimato, Lonny e Randy, mentre la figlia, Nancy, l’unica che sembra averlo davvero amato. Un fratello maggiore- Howie - amato e invidiato, invidiato soprattutto per la prestanza fisica. Il ricordo sempre presente dei genitori, il lavoro di gioielliere del padre, l’amore tramandato e acquisito per gli orologi; “era capace di stare là seduto per ore, facendo girare le lancette e ascoltando il ticchettio degli orologi, se ticchettavano ancora, e studiando a cosa somigliava ogni cassa e ogni quadrante. Era questo che faceva ticchettare quel ragazzo.“ Il mistero di ogni ingranaggio, l’assoluta abilità nel ripararli, aveva imparato molto presto. Sembrano queste le tracce essenziali di una vita, della sua vita.                

Everyman. Già all’età di nove anni l’incontro con la morte. Ricoverato in ospedale per un’operazione di ernia, il bambino nel letto accanto al suo, muore durante la notte. Si spalanca così la grande ombra sulla sua vita, forse per la prima volta, e si ripresenterà ciclicamente, e più tardi, ormai uomo, manifestandosi in un malessere profondo e in una grave peritonite. Un’altra volta il suo corpo a richiamarlo all’attenzione sulla vita, alla precarietà della vita, all’altra faccia oscura della vita. E poi di nuovo il cuore e di nuovo il ricovero in ospedale. Un nuovo intervento, invasivo e debilitante, questa volta all’età di cinquantasei anni. “Esisteva solo il nostro corpo, venuto al mondo per vivere e morire alle condizioni decise dai corpi vissuti e morti prima di noi. Se si fosse potuto dire che aveva individuato una nicchia filosofica in cui collocarsi, eccola: l’aveva trovata presto e intuitivamente, e per quanto elementare, era tutta lì. Se avesse mai scritto un’autobiografia, l’avrebbe intitolata Vita e morte di un corpo maschile.“

Everyman. La morte del padre. Ancora dolore, inenarrabile dolore. L’altra faccia della vita sotto il peso della terra: “ho guardato quella faccia da quando sono nato: smettete di seppellire la faccia di mio padre!“

Everyman. Qualche anno di tregua, e poi un’ostruzione nell’arteria renale. Un stent per tamponare temporaneamente, una nuova tregua e la decisione di trasferirsi nel villaggio per pensionati Starfish Beach sulla costa del New Jersey abbandonando definitivamente New York. È il 2011, da poco c’è stato l’attacco alle Torri Gemelle. E lui “stava solo facendo tutto quello che ragionevolmente poteva per restare vivo. Come sempre - e come quasi tutti gli altri - non voleva che la fine arrivasse un minuto prima di quanto doveva.“ Restare vivo! Nonostante tutto.

Everyman. Nuovamente un’ostruzione nella carotide sinistra. E nuovamente la possibilità di una tregua per Thomas Jefferson, questo il suo nome, il nome del nostro protagonista. “Ma ora eludere la morte sembrava essere diventata l’unica preoccupazione della sua vita e la decadenza fisica tutta la storia.“ Decadenza fisica. Il corpo che si ammala e invecchia.

Everyman. Ancora un defibrillatore inserito in modo permanente come salvaguardia contro i nuovi sviluppi che avrebbero potuto mettere in pericolo la sua vita. Una scatolina metallica grande come un accendino, sotto la pelle, a pochi centimetri della spalla sinistra.

Everyman. Sempre più solitario, organizza corsi di pittura per sentirsi meno solo, per trovare pace alla sua immensa solitudine. Ed è per lo stesso motivo che le persone si iscrivono ai suoi corsi, tenuti due volte alla settimana nello studio della sua nuova casa. Ma la conversazione andava ogni volta a ruotare attorno agli argomenti della malattia con scambi continui di informazioni mediche. Ognuno di loro, chi più chi meno, accusava la perdita di memoria. La malinconia allunga la sua avvolgente ombra su queste vite. I rimpianti, le occasioni mancate, quello che avrebbe potuto essere e non è stato, quello che è stato e avrebbe potuto essere diverso. Quello che di bello è stato e mai più tornerà.

Everyman. Per lui, soprattutto il mancato rapporto con i suoi figli maschi. Possibile recuperarlo all’età di settantun anni, possibile spiegarsi con loro prima del totale, definitivo oblio? Possibile chiedere scusa ancora ad alcune persone per quello che è stato e che è dipeso solo dalla sua volontà? Rimpianti. Sempre.

Everyman. E adesso, sul limitar della vita, anche questo nuovo rancore silenzioso verso il fratello, Howie, perché lui, pur essendo più grande, non aveva mai avuto problemi di salute, mai un ricovero in ospedale, mai stato sfregiato da un bisturi, mai impiantato uno stent metallico nelle arterie. Niente di niente. Solo una salute di ferro. Quel corpo del fratello di cui era stato molto fiero da giovane, quel corpo atletico  e muscoloso, quello stesso corpo che adesso però invidiava, che quasi odiava. Era furioso con quel corpo, uno specchio impietoso nel quale riflettersi. Era costretto ad odiarlo a ad allontanarlo da sè. Furioso con l’enigma irrisolvibile dell’ineguaglianza. Perché a lui quella sorte? Dotato di quel corpo così fragile? Perché non la stessa dote biologica del fratello? Perché?

Everyman. Eppure lui, nonostante tutto, aveva amato. Aveva amato la vita. Aveva amato l’Oceano, aveva amato nuotare. Aveva amato i suoi figli, il suo lavoro, aveva amato l’arte. Aveva amato, posseduto donne, aveva avuto bellissime avventure. Soprattutto lei, l’avventura più bella: Merete. Lei, che riusciva a portare ogni gioco erotico al suo limite. Aveva tradito la moglie per lei, la sua seconda moglie. E per questo motivo, poi la perse. Tradimento scoperto, fiducia azzerata. Divorzio. Separazione. Colpa. Dolore. Rimpianti.

Everyman. Ammazzare il tempo. Riempirlo di ricordi, passeggiare ogni mattina, guardare il mare. Vivere con i ricordi. “Ma quanto tempo poteva passare un uomo ricordando i momenti più belli dell’infanzia? Perché invece non godersi i momenti più belli della vecchiaia? O i momenti più belli della vecchiaia erano proprio questi, la nostalgia per i momenti più belli dell’infanzia…? “L’infanzia, dove tutto pare rigenerarsi. Dove tutto trova pace e sembra ricomporsi. La forza primaria prima dell’oblio. Come un cerchio che si chiude.

Everyman. Ma poi un giorno “era arrivato il futuro remoto“, sempre inatteso, dove “un tremito scuote gli ultimi radi e tristi capelli grigi…” Ma non poteva andare via così. La tenerezza che sentiva era incontrollabile, tutta la sua vita ne era ammantata. “E che tutto potesse ricominciare da capo.“ Di nuovo, ancora una volta, poter ricominciare. E poter lasciare quella macchia, ancora una volta, sulla superficie terrestre, nel cuore del mistero, nel cuore di chi ci ha amato. La nostra macchia umana “impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme…”( vi ricordate? ).

Everyman. Non c’è nulla da aggiungere su questo libro, se non restituirlo degnamente ogni volta alla carne, lasciarlo respirare davanti all’Oceano. Pagina dopo pagina, di sale e di sangue. Doloroso e bellissimo come la Vita.

Everyman. Nessuno escluso, fino a prova contraria.                               (Stella Marina)

11  LUGLIO  2023

Le avventure della China Iron

di Gabriela Cabezón Cámara

Gabriela Cabezón Cámara, argentina di San Isidro (Buenos Aires), ha scritto questo bel romanzo ambientato nella pampa del 1872. É il primo romanzo che leggo di questa scrittrice, uscito da poco per Mondadori edizioni, nella collana Strade Blu. Credo che in italiano sia stato tradotto soltanto un altro libro di lei: “La Vergine dei bassifondi“, forse lo leggerò per farmi un’idea ancor più precisa della sua scrittura. Mi ha attratto - come prima cosa - l’illustrazione di copertina di Beppe Del Greco: ritrae un uomo e una donna a cavallo, in una distesa infinita. Forse al tramonto, con il sole infuocato, un’immagine che mi ha evocato un senso di profonda libertà. E qualcosa di questa libertà la si respira, da subito, fin nelle prime pagine di questo libro che, come scrive Pier Paolo Marchetti, il traduttore italiano del romanzo, cerca di eliminare i peggiori “ismi“: - colonialismo, sessismo, razzismo. E proprio colonialismo, sessismo e razzismo sono, assieme alla Natura, i protagonisti indiscussi di questo romanzo. 

È narrato in prima persona dalla protagonista, China, che diverrà Josephine Star Iron y Tararira nel corso della storia, quando finalmente si lascerà alle spalle tutto il passato, in realtà davvero pessimo, per iniziare una nuova vita, con l’apertura di orizzonti sconfinati e imprevisti. É una giovane donna, orfana e allevata da la “Negra“ che la trattava come una schiava, la picchiava anche senza motivo con un frustino o con un bastone, e che la diede in sposa ad un gaucho cantore che la vinse al truco, e con lui, China,  già all’età di quattordici anni - dette alla luce due figli. E subito dopo lui partì lasciandola sola, perché tutti gli uomini vennero portati via da quel misero villaggio in cui lei viveva in una baracca con quel gaucho che si chiamava Martín Fierro (vi ricordate il libro di José Hernández? ecco, il riferimento non è casuale, tenetelo bene a mente!), uomini dicevo, portati via dalla leva, e lei abbandonata alla solitudine infinita e disperante della pampa. Ma nel villaggio ha la fortuna di conoscere una donna inglese, Elizabeth, con una carnagione bianchissima e i capelli rossi, in cerca del marito Oscar e della propria estancia dispersa in qualche luogo imprecisato della pampa che lei dovrà trovare. Sarà con lei che imparerà a conoscere la vita e l’amore. Partiranno all’alba in una giornata di pioggia leggera, su di un carro attrezzato di tutto e trainato da buoi e cavalli, solo loro due, il cane Estreya, e una fiducia reciproca che non le abbandonerà mai, nonostante le lingue diverse e le difficoltà, a volte, di capirsi. Seguendo il percorso di una vecchia pista tracciata dagli indios, in una giornata di settembre odorosa di nuovi germogli, per China inizia la nuova vita. Tutto è scoperta e iniziazione. Tutto è pelle ed emozione: “avvertivo ogni dettaglio; tutto il mio corpo, tutta la mia pelle era sveglia come se fosse fatta di animali in agguato, di felini, di puma come quelli che temevano di incontrare nel deserto, ero sveglia come se sapessi che la vita ha un limite e io già lo vedessi“. Tutto è polvere in quella terra selvaggia che lei impara a conoscere come mai prima aveva potuto fare. Elizabeth laverà China nell’acqua di un fiume, le toglierà di dosso polvere e passato, la restituirà alla vita donandole una sottoveste e un vestito, una donna nuova alla ricerca di sé e della propria libertà: “quel giorno divenni lady per sempre, anche se montavo a pelo come un indio e sgozzavo le vacche con il coltello.“ Comprese per la prima volta in vita sua che China non era un nome proprio, ogni donna dalle sue parti era chiamata china, così Elizabeth le spiegó, Elizabeth nominata Liz per semplificare, e che le offrì , come il più grande dono della vita , quel nuovo nome : “Josefina“, e con quel nome una nuova consapevolezza di sè. Finalmente era qualcuno, finalmente una donna con un nome proprio, con un orizzonte difronte a sé, non più schiava, non più reclusa tra quattro mura, non più al servizio di nessuno, non più inconsapevole di sé e dei suoi desideri. Con tante cose da scoprire e da conoscere, da valutare. Una terra la sua attraversata da indios e da cristiani, corpi morti e dati in pasto ai chimangos, conquistati e conquistatori in lotta su quella sconfinata pianura, lingue diverse per esprimere punti di vista completamente differenti sulla vita e per contendersi il predominio su quelle pianure sconfinate. L’inglese e lo spagnolo, le lingue dei conquistatori, le nefandezze dei conquistatori: “stiamo immettendo nella carne di queste larve la musica della civiltà“, civilizzatori di un mondo barbaro con l’intento di portare la luce dove, secondo loro, regnava prima il buio: quanta presunzione, arroganza e cattiveria in questa missione di “civilizzazione“, quanto sangue e morte e dolore. Uno sterminio atroce, come la purtroppo famosa “Campagna del deserto“, perpetrata contro gli indigeni. Sempre la solita triste e storia del dominio del più forte sul più debole. Così la pampa si rammenta di ogni genocidio, trattiene ogni dettaglio, e la scrittura della Cámara si fa testimone di un passato che non è mai stato sepolto. Ogni corpo ucciso vive ancora e respira nella pampa. Ogni storia vive nei labirinti sotterranei, pronta a scattare, a reinventarsi, a rinascere dalla polvere. La libertà è una conquista, terribile e mortale. Ed il viaggio, questo viaggio, anela alla Libertà, mentre il suono dell’acqua, la risacca della marea accompagnano il carro di queste donne che procede imperturbabile verso la propria meta. 

Ci è piaciuta questa Josephine, che scopre il sesso, la passione e forse l’amore passando per il corpo di un’altra donna: amica, madre, insegnante, svelatrice di mondi e di pensieri. Scozzese, figlia di agricoltori scozzesi, che la spinge ad andare avanti in cerca di una luce. Le racconta della luce di Londra, della luce nella pittura, della pittura di William Turner. Dei libri, della bellezza dei libri e della parola. Le racconta un mondo che lei non conosce, mentre lei è la chiave per Liz per penetrante la pampa. Qualcosa oltre gli “ismi“ sempre poter esistere. Queste donne, così diverse ma insieme, sembrano volerlo dimostrare. Imperturbabili attraversano la pampa, ognuna con il proprio bagaglio di esperienze, che si dividono e che condividono all’occorrenza. Le loro conoscenze si fondono, e assieme a loro si accende la speranza. La speranza che la convivenza sia possibile su questa terra desolata, e che sia cosa buona e giusta. E che la libertà sia di tutti, di ogni essere vivente, e che vada sempre rispettata. Come ogni diversità di pensiero, di razza, e di cultura. Tutto si muove nel silenzio assordante del cosmo, tutto è niente ed è vita.     (STELLA  MARINA)

11  Giugno  2023

Un matrimonio epistolare

di Caterina Cardona

 

Intanto mi soffermerei su di lei: Caterina Cardona. Lei che ha scritto questo magnifico libro su Giuseppe Tomasi di Lampedusa e la moglie Alessandra Wolff von Stomersee, detta Licy. Un testo che ha scritto quasi trentacinque anni fa , che fu pubblicato con il titolo “Lettere a Licy“ (Sellerio 1987) e che non ha quasi ritoccato per questa nuova edizione accresciuta, anche se in questi trentacinque anni di distanza, molti saggi, racconti, dicerie varie si sono andati ad aggiungere intorno a questi due noti personaggi, via via che dalle macerie di Palazzo Lampedusa emergevano documenti, appunti e ancora nuove lettere. Ma negli anni in cui Caterina Cardona si incuriosì - si appassionò a questa loro storia d’amore - tutto quel materiale sembrava ancora non interessare a nessuno, o almeno non così tanto, non come avvenne in seguito. Quindi dobbiamo soprattutto a lei questo lavoro di scavo preciso, accurato e amorevole, tra tutte le carte messe a disposizione e ritrovate dalla famiglia. Lei, che con quella sorta di pudore nel leggere corrispondenze private, in una sorta di lavoro archeologico, ha riportato alla luce mondi, parole, pensieri e soprattutto vite, con estremo rispetto e raffinata delicatezza. É lei stessa che nella bellissima prefazione a questa edizione parla di “conversazione a rallentatore“, non ci sono infatti le lettere trascritte integralmente - circa duecento - che i due sposi si sono scritti nell’arco di diversi anni, ma solo parti di conversazioni filtrate dalla sensibilità della scrittrice, per ricostruire in parte la storia di due coniugi, di due mondi, di un periodo storico interessante e estremamente complicato, di due avvincenti personalità. Di una di queste due avvincenti personalità, uscì postumo, nel 1958 (a cura di Giorgio Bassani) il suo capolavoro letterario - Il Gattopardo - libro che l’anno seguente vinse il premio Strega. E lo vinse meritatamente, perché è un libro straordinario. E lo vinse quasi in seguito ad una ripicca, per un cipiglio d’onore di un aristocratico siciliano che un giorno decise che in fondo, anche lui non era da meno rispetto ai suoi tre talentosi cugini da parte materna “in cui si è risvegliata una violenta attività artistica“ e che quindi era giunto il momento di dimostrarlo, e con impeto “debbo confessare che mi sono sentito pungere sul vivo: avevo la certezza matematica di non essere più fesso di loro“, e la conseguenza di questa lampedusana constatazione fu che si dedicò alla scrittura di un capolavoro. E ci riuscì, al di là delle critiche postume e al di là di Elio Vittorini che considerò il Gattopardo “non degno di pubblicazione.“

Ci si chiederà del perché questi due sposi si siano scritti così tante lettere. È una domanda più che lecita, e la risposta sta nel cuore della loro stessa vita. Abitarono separatamente per diversi anni, per lunghissimi periodi, lei, baronessa balcanica, viveva nel suo castello di Stomersee in Lettonia, lui nel Palazzo di famiglia, Palazzo Lampedusa. Soffrivano la distanza, ma entrambi amavano troppo i loro “luoghi“ per riuscire a separarsene davvero e fino in fondo. Così la distanza sarà sembrata loro un buon e accettabile compromesso per continuare ad abitare luoghi amati e persone amate. Certo, finché fu possibile. Finché la guerra non venne poi a sommuovere ogni cosa: Palazzo Lampedusa fu bombardato e successivamente distrutto, mentre il castello di Stomersee venne confiscato. Ecco dunque che poi le lettere non servirono più a colmare una distanza, non servirono più per raccontare un quotidiano non condiviso. Le lettere che si sono scritti non erano lettere intime, eccetto alcune, né lettere d’amore, eccetto alcune, ma lettere del loro quotidiano, racconti di quello che - di più o meno importante - accadeva nelle loro giornate. Erano due persone estremamente colte, parlavano correntemente quattro lingue. Si scrivevano per lo più in francese, “quasi una metafora istintiva“ come sottolinea Caterina Cardona del loro lungo matrimonio epistolare. Lampedusa poi aveva appreso fin da piccolo il francese dalla madre, quindi era anche una lingua “materna“ e sappiamo quanto lo scrittore fosse legato alla madre e che forse, in questa lunga distanza tra i due sposi, questo legame madre- figlio ebbe un ruolo diciamo non del tutto “irrilevante“. Certamente come irrilevante non fu anche quel bel sole di Sicilia, quello stesso sole descritto nelle prime pagine del Gattopardo: “l’autentico sovrano della Sicilia: il sole violento e sfacciato, il sole narcotizzante anche, che annullava le volontà singole e manteneva ogni cosa in una immobilità servile, cullata in sogni violenti, in violenze che partecipavano all’arbitrarietà dei sogni.“

E così rimangono le lettere, scritte con carta leggera e un po’ rigida , a matita , quelle di lei, su dei foglietti azzurrini e con penna stilografica quelle di lui, “ una Parker dal segno un po’ grosso ,la sua “bien aimée“, e queste lettere paiono essere state l’unico apprendistato dello scrittore prima di scrivere il suo grande romanzo. Non era avvezzo allo scrivere, forse era più un attento e accurato lettore. Eppure…  Non meno interessante è la figura di lei, che trapela ed emerge dalle pagine di questo libro. Una donna intelligente, libera, una psicanalista che ebbe il merito di far conoscere a Palermo il pensiero di Freud. La madre di lei era la famosa Alice Laura Barbi, cantante classica, la prima cantante italiana da concerto. Donne colte e indipendenti, abituate a seguire e coltivare le proprie passioni. Licy amava stare in assoluta solitudine per gran parte del giorno, nel piccolo salotto della torre del suo castello “J’ai une couchette couverte de chintz et tous les jours je m’y tiens, à lire et à dessiner“. Bel libro, e una bravissima Caterina Cardona.     (Stella Marina).


11  Maggio  2023

Il ritorno di Casanova

di Arthur Schnitzler

Casanova che invecchia è anche l’Austria che tramonta, la sensualità che si spegne, il mondo di ieri che si avvia a una fuga nelle tenebre“. Queste parole di Claudio Magris sono assolutamente perfette per dare inizio a questo mio commento al libro di Arthur Schnitzler, alla sua lettura, o rilettura, perché quando se ne scrive, in un  certo modo un libro lo si rilegge e lo si continua a leggere. 

Il libro dell’autore viennese ritrae un Casanova cinquantatreenne, in un’Italia del diciottesimo secolo. Un Casanova che non ha quasi più niente del giovane seduttore che noi ricordiamo, sempre assetato di conquiste, di belle donne, di viaggi. Ormai ha pochissimi soldi in tasca e un solo grande desiderio e una smisurata nostalgia: poter ritornare nella sua città, in quella Venezia da cui era scappato moltissimi anni prima dopo essere stato arrestato e rinchiuso nel carcere dei Piombi. È un Casanova stanco, vinto, quello di cui ci narra Schnitzler, che attende solo la clemenza dei suoi concittadini, la benevolenza del Consiglio dei Dieci per poter rientrare in città. Ormai con poche ambizioni, per lo più letterarie, infatti lo vediamo impegnato totalmente nella scrittura di un libro, di un pamphlet contro Voltaire e questo impegno sembra assorbire tutte le sue energie residue. Un uomo al crepuscolo della vita, con tanti ricordi, una fama che giorno dopo giorno sembra perdere il suo smalto e la sua memoria. Tuttavia non può soccombere così completamente Casanova, non può arrendersi, non lo si potrebbe sinceramente accettare, e lo scrittore ce lo rende più umano, più vicino al fallimento, più suscettibile, più incline all’errore. È un uomo che ormai non conta più i suoi successi, ma che si confronta, subendole, con le sue sconfitte, con il rifiuto, e sì, anche con i compromessi. Una sorta di resa dei conti che la vecchiaia pretende dalla giovinezza, dove tutto poteva sembrar lecito e soprattutto, molto semplice. Almeno molto semplice per lui, per il giovane Casanova. 

Ma ci sarà ancora una donna in questa età amara, una donna di cui lui si innamora perdutamente, senza essere però ricambiato. Inaccettabile per lui, quasi inverosimile. Niente però riesce a fare presa su di lei, intelligente e determinata, libera, lei che di nome fa Marcolina, una ragazza di nemmeno venti anni, amata e infinitamente desiderata da questo Casanova cinquantatreenne. Lei che lo ascolta ma che lo contraddice, che gli tiene testa con argomenti logici e assolutamente razionali, e soprattutto una lei che non cade ai suoi piedi, nei suoi occhi non c’è la minima traccia di quel “bagliore“ che invece Casanova aveva sempre saputo suscitare nello sguardo di ogni donna che aveva incontrato, incrociato durante la sua esistenza. Marcolina ha già rifiutato svariate proposte di matrimonio, e sembra ben determinata a dedicare tutta la sua vita al servizio della scienza. Sembra, appunto. Ma poi non sarà proprio così…e questa constatazione sconvolgerà il nostro Casanova, rendendolo quasi folle e pronto a ricorrere all’inganno, a un vile travestimento, pur di averla. Lui, l’eterno seduttore costretto all’inganno dove oramai il fisico non gli è più alleato né compagno di sfrenate conquiste. Ma questo inganno -peraltro portato a termine con successo- non gli restituirà la felicità pregustata, né totale appagamento, ma solo il riflesso della sua vecchiaia, di una stanchezza dolorosa, di un retrogusto amaro che lo separerà definitivamente dalla giovinezza e dalle sue avventure di un tempo. Tutto è crepuscolo e notte senza sogni che termina in un brutto letto di una misera locanda in una Venezia deserta e senza stelle. 

Tutto è crepuscolo e notte senza sogni che termina in un brutto letto di una misera locanda in una Venezia deserta e senza stelle. Per quanto riguarda invece il film di Gabriele Salvatores, sono ancora molto indecisa sé andarlo a vedere o meno, nonostante ami moltissimo Toni Servillo e Fabrizio Bentivoglio. Magari fra un po’ di tempo, ancora amo questo libro per come me lo sono immaginato e per come continuo ad immaginarlo.

                                                                                              (STELLA  MARINA)

11  Aprile  2023

L’identità 

di Milan Kundera

Erano davvero diversi anni che non leggevo più Milan Kundera. Un po’ mi mancava, me ne sto rendendo conto solo adesso. Così, ho accarezzato il dorso dei suoi libri che ho nella mia libreria, e mi sono soffermata su questo titolo: “L’identità“. Un libro che non ho mai letto, e che era lì, in attesa della mia attenzione. Sfilandolo dalla mensola, mi è venuto in mente il volto di Kundera, quello di adesso, i suoi capelli bianchi e il suo sguardo forte, deciso, da esule forzato che dopo quarant’anni ha potuto finalmente “riconquistarsi“ la cittadinanza ceca, pur continuando a vivere a Parigi. Ho pensato alla sua veneranda e bellissima età; ha appena compiuto 94 anni! Come tanti lettori, ho amato molto “L’insostenibile leggerezza dell’essere“, ma forse il libro che più ho amato è stato “Lo scherzo“ o forse no, forse invece ho preferito tra tutti “Il libro del riso e dell’oblio“. 

 L’identità è stato scritto nel 1997, in lingua francese, tradotto per Adelphi da Ena Marchi. Inizia in un allegro paesino sul mare di Normandia, dove una coppia di Parigi ha deciso di trascorrere alcuni giorni di vacanza. La donna si chiama Chantal, ed ha qualche anno in più del compagno Jean-Marc. Lei arriva un giorno prima di lui, da sola. Questa lieve dissonanza di tempi, permette allo scrittore di aprire tra la coppia una piccola fessura, uno spiraglio capace di creare un perverso gioco di specchi in cui l’usuale stenta a riconoscersi, e tutto quello che uno crede di sapere sull’altra persona, può risultare all’improvviso un mero abbaglio. C’è subito, nelle prime pagine, un rimando ad una trasmissione televisiva “Perso di vista“ (l’equivalente forse del nostro “Chi l’ha visto“), che sottolinea questa deriva verso il non riconoscimento, lo spaesamento che ci coglie quando “non“ riconosciamo l’altro per come crediamo di conoscerlo, o pensiamo di conoscerlo. Come “un perdere di vista“ le caratteristiche note che ci fanno credere di conoscere quella persona, e di conoscere noi stessi, attraverso quella stessa persona. Grazie proprio a questa dissonanza di tempi, vediamo i due personaggi agire, muoversi da soli, presi e persi nelle proprie meditazioni. Lei sulla spiaggia mentre cammina dopo una notte in cui ha fatto un lungo sogno che assomigliava quasi ad un incubo e che le avrebbe voluto togliere il presente, negare quel presente che lei così tanto ama e nel quale finalmente si riconosce completamente. Lui, che dopo essere passato a trovare un vecchio amico in ospedale, un malato terminale per il quale non prova più niente, neppure quella rabbia che forse li aveva allontanati, decide di raggiungere il più rapidamente possibile la compagna in Normandia. In questa distanza di coppia, che inizialmente è solo una distanza chilometrica, irrompono pensieri, si fa spazio il lato ombra, si insinua il dubbio. Lei, in prossimità della menopausa, si domanda se ancora possa davvero piacere ad un uomo, ed è pervasa da un bisogno vitale di sedurre, di trovare conferme. La mancanza di figli rende ancora più prepotente questo suo desiderio, nato così, all’improvviso, mentre si trova a passeggiare in riva al mare. Lui invece, desideroso di vederla dopo l’incontro con l’amico che lo ha turbato, la raggiungerà sulla spiaggia. Ma non ci sarà un incontro. Lui infatti crederà di riconoscerla in lontananza mentre cammina a passi lenti, senza guardarsi intorno, come è sua abitudine. Gli sembra di riconoscerla proprio in tutto, in ogni minimo movimento, in ogni piccolo gesto, proprio e soltanto lei, la donna che lui ama moltissimo. Ed è sempre lei e solo lei - chi altrimenti - quando, ignara di un pericolo che pare incombere all’improvviso sulla sua vita, continua a passeggiare sulla spiaggia senza rendersene conto, mentre lui si precipita di corsa per soccorrerla, perché lei è la sua vera ragione di vita. Ma quando Jean-Marc “davvero“ riesce a vedere Chantal, a riconoscerne distintamente i tratti, si rende amaramente conto che non è lei, e nemmeno qualcuna che le possa in qualche modo assomigliare. La vicinanza della sconosciuta, gli confermerà l’abbaglio. L’incontro tra la coppia ci sarà, poco dopo, nella camera dell’albergo. Ma già qualcosa è accaduto tra i due, qualcosa che lentamente cresce nel corso del racconto fino ad esplodere, fino a renderli due perfetti estranei. Una situazione al limite del paradossale ma assolutamente possibile. Reale, più di quanto si creda. Da questo momento tutto viene messo in discussione, tutto è diverso da “prima“. Il gioco di riconoscimento si fa straniante. L’identità, qualcosa da esplorare e da temere, perché ha un risvolto sconosciuto, un doppio fondo insidioso. Ma cos’è realmente l’identità di una persona? Quante identità si nascondono in una persona? 

La confessione da parte di lei di quel: “gli uomini non si voltano più a guardarmi“, innesca un gioco perverso di non riconoscimento che si disputa su un terreno sdrucciolevole e via via sempre più pericoloso. Anche un gesto apparentemente bellissimo, come quello di spedire alla moglie lettere anonime da parte di un possibile ammiratore segreto, e questo solo per farla sentire ancora desiderata, risulterà elemento di non- riconoscimento, di allontanamento tra la coppia. Innescherà equivoci reciproci, malintesi, che faranno dubitare dell’altro/a. Un velato/svelato narcisismo stenderà la sua lunga ombra su una storia d’amore rendendola quasi irriconoscibile. La prova risulterà dura, Kundera molto bravo a sfidarla di continuo. Ma non fa altro che imitare la vita, ricalcandone le tracce direttamente dall’esperienza viva dell’esistenza. Tra le ombre, i segreti che si celano in ogni identità, e le maschere. Per cosa viviamo? Che cosa è davvero essenziale nella vita? chiede lo scrittore, ci chiede il libro. Il romanzo risponderà, a modo suo, a queste domande, lasciandoci un’esperienza sulla quale meditare, sulla quale continuare a pensare. Forse proveremo anche noi a rispondere, con la nostra stessa vita. Ma le risposte sono sempre impopolari, e difficilmente complete. Belle sono sempre e “Lascerò la lampada accesa per tutta la notte. Tutte le notti. “soltanto le domande. Ed è bene non esaurirle mai, averne sempre sete. 


11  Marzo  2023

Pagine di un diario veneziano             
di Valerio Zurlini

Tra i libri ho letto lo scorso anno, ce ne sono stati alcuni davvero molto belli, uno di questi è quello di Valerio Zurlini “Pagine di un diario veneziano“, ristampato dalla casa editrice Mattioli nel 2022. Il titolo originale era “Gli anni delle immagini perdute“, con l’introduzione di Vasco Pratolini. Anche questa edizione conserva l’introduzione di Pratolini, aggiungendo la bellissima prefazione dello scrittore Filippo Tuena. Ed è proprio da questa prefazione che vorrei attingere per iniziare a parlare di questo libro. 

“Più vai avanti con l’età e più si assommano i rimpianti. Siamo modellati dal confine di quel che non abbiamo osato o potuto conoscere. Si cresce per sottrazione, penso o forse, meglio, siamo sempre sul limite delle cose perdute. L’idea sarebbe piaciuta a Zurlini, non perché lo desiderasse, quanto perché, di rimpianti e occasioni mancate, gli era capitato di sommarne in quantità e quando l’ho conosciuto io, nei primi anni ‘70, gli si leggeva in volto il rimpianto per le occasioni non colte e la consapevolezza del poco tempo che gli rimaneva. Non tanto quello per vivere - sarebbe stato d’una decina d’anni - quanto quello per fare film. Con i suoi tempi, ne avrebbe potuti fare un paio. Ne fece uno, Il deserto dei tartari, inseguito a lungo, sognato e meditato e, finalmente, filmato.“

Questo libro uscì postumo, alcuni mesi dopo la scomparsa di Zurlini ed è un po’ il suo testamento artistico, il suo congedo “laico“, perché vi sono presenti due tra le sue più grandi passioni: il cinema e la pittura. Procede il libro con continui “flash-back“ narrativi come ci si aspetta da un diario che tenta di riassumere, raccontare e ricordare una vita intera. Un resoconto di un “appassionato e misurato interprete del proprio tempo“, come scrive Pratolini. “Un protagonista discreto“, come lui è stato. Il diario si apre con la data del 6 novembre 1981. Zurlini si trovava a Venezia, e racconta di un inverno veneziano del 1964, inverno in cui cadde molta neve. Lui abitava allora in Dorsoduro e dai piani superiori del Conservatorio sentiva uscire le note della musica di Benedetto Marcello, di Vivaldi, di Albinoni. È una fortuna riuscire a sentire il “suono“ di Venezia, questa musica che scivola aderendo alla laguna e che, insinuandosi tra i canali a pelo d’acqua, penetra in profondità in chi si trova a camminargli accanto. Della fluidità di Venezia così bene ne ha parlato Iosif Brodskij, e mi tornano alla mente alcune frasi di quel gran libro che è “Fondamenta degli incurabili“: “un odore è, dopo tutto, una violazione dell’equilibrio su cui si regge l’ossigeno, un invasione di quell’equilibrio da parte di altre sostanze - metano? carbone? zolfo? azoto? Secondo l’intensità di questa invasione, percepiamo un aroma, un odore, un fetore. È una questione di molecole, e la felicità, suppongo, scatta nel momento in cui captiamo allo stato libero gli elementi che compongono il nostro essere. E là, allora, ce n’era un bel numero, in uno stato di libertà totale, e io avevo la sensazione di essere entrato nel mio stesso autoritratto sospeso nell’aria fredda.“

Così adesso mi pare proprio di vederlo - in questo preciso istante - Zurlini passeggiare per Venezia, sospeso tra acqua, suono e pensiero mentre magari si immaginava già Giovan Battista Drogo in cammino verso la fortezza Bastiani. Assolutamente assorbito dai suoi ricordi, seguendo la bizzarria della memoria e di quegli anni in cui il cinema era “guardato con ammirazione e anche con una punta di invidia“. Anni in cui alcune amicizie furono veri e propri sodalizi, Cesare Pavese con Vittorio De Sica, Giorgio Morandi e Michelangelo Antonioni, Giacomo Manzù e John Huston, Renato Guttuso e Luchino Visconti. La bellissima descrizione che Zurlini fa di Vasco Pratolini ma anche di Riccardo Gualino. I ricordi degli anni della guerra e soprattutto del dopoguerra, di una Roma “sporca, cenciosa, testarda di vita“ dove negli sguardi della gente si leggeva ancora la diffidenza. Furono anche gli anni dell’incontro con il teatro, anni di entusiasmo e di anarchia.

Ci fu poi l’approdo a Milano, che vestendosi di “una coltre intima e segreta, riusciva, a differenza di Roma, ad occultare le rovine e le ingentiliva misteriosamente. Ma Zurlini soffrì - in questa città in cui non riusciva ad adattarsi - di vere crisi depressive. E c’è un bellissimo incontro con il padre narrato dall’autore, le sue parole l’aiutarono ad affrontare una città, almeno all’inizio, a lui ostile. Le opere d’arte gli furono sempre di gran conforto, spazi, luoghi di pura bellezza, momenti di puro godimento estetico. Di intimo raccoglimento. Il libro ne è pervaso. Spicca l’amicizia con Giorgio Morandi e la grandissima ammirazione per lui, e l’incontro con Lucio Fontana, “l’amore“ per Pier Paolo Pasolini. E, ovviamente, finalmente si arriva al cinema, il suo vero grande amore: “Pronti? Silenzio. Motore. Azione. Stop. “Cinema che è anche letteratura. Ci sono pagine bellissime in questo libro di un’Italia che non esiste più, di uomini che forse non esistono più, così intimamente legati allo splendore, alla ricerca estetica di una verità, a una malinconica quiete che sembra nutrirsi di silenziosa bellezza. La memoria affida al sentimento, alla qualità di una vita, di provare a mettere ordine tra tutti i ricordi, perché nulla vada perduto, perché il passato continui a parlare. Perché le parole seguitino a scavare sul fondo ostinato della malinconia, restituendo la vividezza di ogni incontro, l’autenticità e la determinazione di un cammino. 

“Rimpiango l’entusiasmo che non è rinato, ogni amarezza non vissuta, quando oggi so che anche il dolore è vita: la piena dei sentimenti che danno felicità e tormento, ma non un vuoto sterile e opaco.“                                       (Stella Marina)

11  Febbraio  2023

DOPPIO  SOGNO

di Arthur Schnitzler

Il 1900 si aprì in modo folgorante con teorie e idee che avrebbero rivoluzionato completamente - di lì a poco - la vita degli uomini. Il biologo austriaco Karl Landsteiner scoprì i gruppi sanguigni e isoló il virus della poliomielite, il fisico danese Niels Bohr formulò la teoria della costituzione dell’atomo, Koch identificò il micobatterio della tubercolosi, Einstein formulò la sua teoria della Relatività speciale, Freud scoprì “l’inconscio” e pubblicò agli inizi del 1900 il libro “L’interpretazione dei sogni”. Nell’ottobre del 1903, i fratelli Orville e Wilbur Wright realizzarono il primo volo con il primo mezzo motorizzato, il Wright Flyer…, e potrei continuare ancora e ancora. Un secolo dunque splendido e dannato, in cui l’occhio dell’uomo sprofondò nel denso e impenetrabile mare dell’inconoscibile e dell’incommensurabile, nel baratro dell’Io, dell’ Es e del Super-Io, nelle nevrosi di un secolo prepotente e furioso.

Arthur Schnitzler, nacque nel 1867 a Leopoldstadt (Vienna), fu medico, scrittore e drammaturgo. Pubblicò su una rivista questo splendido romanzo che aveva già iniziato a scrivere nel 1907 e che fu terminato nel 1925. Il titolo originale era “Traumnovelle“ (Novella del sogno), ed è ambientato nella Vienna degli anni Venti. Lo scrittore è sempre stato affascinato dalla vita dell’inconscio, in particolare dal “medioconscio“, una specie di territorio intermedio fluttuante tra conscio e inconscio. Tracciare quanto più precisamente possibile i limiti tra conscio e inconscio è quello in cui principalmente consiste l’arte del poeta, scriverà Schnitzler. Ed è tenendo a mente questo pensiero che conviene avventurarsi tra le pagine dell’autore, che fu anche il primo -in lingua tedesca - ad usare il monologo interiore. Lo stesso Freud riconobbe allo scrittore viennese questa sua grande capacità di saper sondare la psiche umana e di essere stato capace di intuire - con sorprendente profondità - tutto quello a cui Freud era giunto attraverso il suo metodo scientifico. Ci furono diversi scambi epistolari tra i due, ed ogni volta, leggendo le lettere, emerge la grande stima che lo psicanalista nutriva per lo scrittore. Devo riconoscere che proprio questo libro mi ha fatto innamorare di Schnitzler, tanto che sto leggendo tutto quello che ha scritto, anche le opere per teatro. Sono assolutamente soggiogata dal potere della sua scrittura, dalla sua immensa bravura. Essenziale e preciso, crea ogni volta perturbanti meccanismi perfetti. Come questo libro, capace di intraprendere, come scriverà Antonio Tabucchi “una impavida peregrinatio ad loca infecta“, spingendosi fin dove la letteratura non aveva ancora osato addentrarsi. Ma non è soltanto questo, come giustamente sottolinea Paola Capriolo nella bella introduzione all’edizione Einaudi. È anche l’analisi lucidissima di un malessere esistenziale di un’intera epoca. La crisi epocale della finis Austriae.

Il racconto si apre con una tranquilla, seppur breve, scena famigliare; una bambina piccola legge la sua favola a voce alta nella sala da pranzo prima di andare a dormire, mentre i genitori la osservano amorevolmente. Sotto il chiarore rossastro di una lampada, la notte lentamente si fa strada, avanza, e con la notte giungono inaspettate confessioni, pericolosi vortici di desideri nascosti che Fridolin e Albertine (la coppia di genitori), quasi fosse un gioco perverso, si abbandonano a raccontarsi, sfidando l’ombra imprevedibile dell’ineffabile. Sfidando la piega che improvvisamente potrebbe prendere un destino, se provocato. Si confessano, dopo che la sera precedente erano stati insieme ad un ballo in maschera, l’attrazione provata per degli sconosciuti nel corso della loro vita di coppia, le possibili occasioni mancate che, frugando nel passato alla ricerca di indizi, di prove e di ricordi, vengono alla luce, emergono. Sfilano davanti ai nostri occhi potenti desideri erotici incarnati in un giovane uomo e una ragazza, intravisti per un attimo dalla nostra coppia durante una vacanza in Danimarca, ma capaci di sconvolgere la solidità della loro unione. Apparentemente sembrano confessioni senza conseguenze, quasi come un gioco innocente di seduzione, ma lentamente si creerà un’atmosfera di diffidenza, di sospetto, di profondo risentimento. Inizia così un viaggio straniante in una Vienna notturna, dove già si preannunciano i primi segni della primavera. Fridolin, si avventurerà nella notte, non solo in quanto medico e in visita a pazienti malati, ma soprattutto per allontanarsi da casa, dalla moglie, “allontanandosi sempre più dalla normale sfera della sua esistenza, addentrandosi in un altro mondo, lontano ed estraneo“. Inizia uno sfrenato lavorio dell’immaginazione, dove i fatti non sappiamo se siano davvero reali, accaduti o semplicemente immaginati, oppure sognati. Gli incontri di quella notte sembrano circondati da un alone di irrealtà, visioni oniriche in uno stato d’animo enigmatico che creano un misterioso stordimento. Uno stato di straniamento. Odore di seta, velluto, profumi, polvere e fiori secchi. Costumi di carnevale di ogni genere, abiti monastici. Parole d’ordine per decifrare l’ignoto, carrozze funebri che conducono al limite della notte. Incontri seducenti, bocche che luccicano di un colore rosso sangue, orge notturne in case blindate. Morte ed erotismo, sonno e veglia, la febbricitante immaginazione spinta al suo estremo limite. E mentre Fridolin compie questo viaggio dentro se stesso, Albertine sogna, l’unica che siamo certi abbia davvero sognato in questa narrazione. Sogna, sogna l’incubo stesso del marito con una precisione quasi sconcertante, e sogna il suo desiderio, lambendo quella zona pericolosa ma assolutamente attraente del tradimento, tradimento che diventa anche feroce esecuzione, una crocifissione con la punizione della morte. Desideri di vendetta inconsci, risentimenti palesi, tutto è giocato su diversi piani di esistenza che conducono ad uno stordimento misterioso, “e non si sapeva più se si era fatta un’esperienza reale o soltanto sognato. Soltanto…soltanto…!“

Il medesimo stordimento misterioso lo prova il lettore, in questo perfetto gioco della mente, in questo “Doppio sogno“ che ci regala la traduzione italiana ( copiata anche dai francesi ! ). E nessun sogno, è interamente sogno, parafrasando Schnitzler. Buon viaggio. Attenzione alle maschere, sono oltremodo seducenti e l’acqua è profonda, come direbbe Anne Carson.                                      (STELLA MARINA)

11  Gennaio  2023

Azzorre.

di Cecilia M. Giampaoli

 “Affondo. L’oceano da sotto è scuro. Rimango ferma un istante, immersa. Sospesa. Senza suonBiglie d’aria mi escono dal naso. Poi la fisica e le sue leggi mi spingono su. Esco con la testa e prendo fiatVedo il dorso dei delfini emergere dalla pelle del mare e poi tornare giù, non si avvicinano. L’acqua è freddissima. Infilo di nuovo la testa sotto e guardo il baratro blu. Mi abbandono. Mi sento in prossimità di tutte le creature del mare, di tutti i mari. In contatto acquatico con tutte le cose immerse. Questo pensiero mi agita. Riprendo fiato. Nuoto verso la barca, risalgo e mi avvolgo nell’asciugamano.I delfini non si vedono più.“

La storia qui narrata, è una storia vera, veramente accaduta alle isole Azzorre l’8 febbraio del 1989. Un aereo, il Boeing 707 IDN 1851, partito da Bergamo con 144 persone a bordo, si schiantò contro il Monte Pico per vari, concomitanti errori umani avvenuti durante la procedura di atterraggio sull’isola di Santa Maria. Nessuno di quel volo poté salvarsi. Fu difficile anche riconoscere i corpi, perché quasi nessuno aveva il passaporto con sè. Gli oggetti e i corpi furono scaraventati e sparpagliati ovunque su quella montagna da quell’impatto atroce e mortale. Non ci fu incendio. Ma solo un lungo, interminabile silenzio nel centro dell’Atlantico, nel cuore di quell’arcipelago di piccole isole vulcaniche. A bordo di quell’aereo c’era il padre della scrittrice di questo libro. Lei allora aveva soltanto sei anni. Dopo venticinque anni da quella morte, lei ha deciso di partire per le Azzorre per tentare di capire tutto quello che veramente accadde in quel giorno di febbraio, di elaborare definitivamente il lutto attraversando nuovamente il dolore, cercando “i frammenti“ di quel disastro.

Sono note di diario, appunti quotidiani di viaggio scritti ovunque, in qualsiasi momento, con e in qualsiasi stato d’animo. Ci sono tutti gli incontri con persone del luogo che si ricordavano ancora molto bene di quell’incidente, o avevano fotografie, o documenti video, pagine di giornali, addirittura pezzi autentici di quell’aereo, ci sono anche incontri- e incontri mancati, con chi aveva avuto una parte di responsabilità attiva in quel disastro. Soprattutto c’è l’incontro della scrittrice con se stessa e con i pochi ricordi di un padre venuto a mancare troppo presto. E c’è - oltre a tutto questo - l’incontro con le isole Azzorre, con una natura che scandisce quotidianamente il tempo degli uomini che ci abitano, e che fa dire ad una sua abitante - Teresa - che sarà anche la guida di Cecilia Giampaoli in questo suo viaggio: “Qui è facile convincersi che ogni cosa è in relazione con le altre.“

“Nella testa c’è un confine preciso, un recinto dentro il quale è bene restare. È uno spazio abbastanza grande per contenere la coscienza delle cose e tutte le emozioni sostenibili. Il panico, la fobia, la pazzia e la depressione ruminano lì fuori in attesa che tu metta il piede sulla staccionata.“

Gli abitanti dell’isola raccontano, quasi per alleggerirsi l’anima, cercano di ricordarsi di ogni minimo dettaglio di quel disastro e lo offrono a Cecilia. Sono dettagli dolorosi, che cercano di ricucire uno strappo. Di offrire un conforto là dove è impossibile essere confortati. Su un’isola il sole tramonta sempre sul mare, il cielo quando è limpido può essere letto, interpretato, interrogato. Niente come l’isola stessa può essere di conforto, di aiuto per un dolore così grande, incontenibile, ingiustificabile. Mare da tutti i lati, “pochi chilometri per restare vivi“ aggrappandosi a se stessi.

Una storia che si “conclude“ dopo un mese di permanenza alle Azzorre, un aereo in partenza per Lisbona, meta intermedia prima del rientro in Italia, mentre io ripenso ad una frase di Fernando Pessoa che un giorno scrisse: “I viaggi sono i viaggiatori. Quello che vediamo non è quello che vediamo, ma quello che siamo.“

 Ottimo libro.                                                                      (STELLA MARINA)


11  Dicembre  2022


Il nostro bisogno di consolazione

di Stig Dagerman



 

“Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa. Non ho ereditato né un dio né un punto fermo sulla terra da cui poter attirare l’attenzione di un dio. Non ho ereditato nemmeno il ben celato furore dello scettico, il gusto del razionalista o l’ardente innocenza dell’ateo. Non oso dunque gettare pietre sulla donna che crede in cose di cui io dubito o sull’uomo che venera il suo dubbio come se non fosse anch’esso circondato dalle tenebre. Quelle pietre colpirebbero me stesso, perché di una cosa sono convinto: che il bisogno di consolazione che ha l’uomo non può essere soddisfatto.“

Stig Dagerman, nato a Älvkarleby nel 1923, scrisse i suoi libri più importanti tra il 1945 e il 1950, in quel difficile periodo storico in cui scrittori, artisti, intellettuali si interrogavano sul senso della catastrofe, su tutto quello che era rimasto nel mondo dopo la seconda guerra mondiale e su nuovi scenari possibili. Anarchico convinto fin dall’adolescenza, spese tutta la sua brevissima vita cercando di evidenziare i meccanismi palesi e occulti di ogni possibile forma di sfruttamento. Abbandonato nei primissimi mesi di vita dalla madre, visse con i nonni paterni per alcuni anni, in seguito con il padre e la moglie di lui. Scrisse il suo primo libro a soli ventidue anni - “Il serpente“ - con “l’orrore negli occhi“, come scrive Goffredi Fofi nella bella introduzione a “Il viaggiatore“, splendida raccolta di racconti scritti tra il 1947 e il 1953, alcuni dei quali usciti postumi. Dagerman si tolse la vita nel novembre del ‘54, a soli trentun anni. Nemmeno la scrittura riuscì più a sostenerlo, anzi divenne un tormento, un dovere, un enorme peso che non era più capace di sostenere, assillato dal senso di inadeguatezza, dal senso di inutilità di qualsiasi cosa. “Sono irrimediabilmente malato, d’una malattia diabolica che si manifesta con un odio incessante nei confronti di me stesso e un’intesa capacità di fare male agli altri.“ Questo monologo “Il nostro bisogno di consolazione“, brevissimo e fulminante, lo scrisse nel 1952 ed è il suo testamento, lasciato ai posteri, lasciato a noi. 

Un talentuosissimo scrittore di cui dovremmo leggere ogni libro. Mi sono andata a rileggere, subito dopo queste pagine, i racconti de “Il viaggiatore“, ed ho in rilettura “Il serpente“. Libri duri, aspri, disperati che ci coinvolgono e richiedono la nostra collaborazione, richiedono azioni concrete, con lo sguardo rivolto sempre verso i bambini, gli adolescenti e verso gli ultimi della terra. Non vanno soltanto letti i suoi libri, ma vanno vissuti, impegnandoci a rivedere costantemente le leggi che regolano i rapporti umani, che tendono ad escludere alcuni e favorire altri, a rimediare a qualsiasi ingiustizia, a proteggere i più deboli, sempre e a qualsiasi costo, con forza e perseveranza. Ci pone davanti la Sofferenza, e noi non possiamo limitarci a leggerla, dobbiamo cercare di limitarla, come unico vero scopo della nostra esistenza. “L ‘uomo non ha però bisogno di una consolazione che sia un gioco di parole, ma di una consolazione che illumini.“ Lui ha cercato la luce con ogni mezzo possibile, impegnandosi per quanto e fin quando ha potuto, in una lotta accanita con se stesso, combattuta in ogni istante. “Tutto quello che possiedo è un duello, e questo duello viene combattuto in ogni istante della mia vita tra le false consolazioni, che solo accrescono l’impotenza e rendono più profonda la mia disperazione, e le vere consolazioni, che mi guidano a una temporanea liberazione.“

Non c’è molto da aggiungere su questo “libricino“ potente e magnifico, se non che va assolutamente letto e tenuto presente nella nostra vita di esseri umani, nella nostra vita quotidiana. È un libro che chiede vita, azione, forza, perseveranza, determinazione. Di andare avanti proprio là da dove lui si è fermato, stremato, incapace più di andar oltre. Qualsiasi parola io cerchi di aggiungere per descrivere questo libro, non sarà mai all’altezza di ogni singola frase, o pensiero di questo straordinario scrittore. Concludo infatti affidandomi alle sue luminose parole, che ci diano forza e coraggio in questo disperato e, a volte, disperante cammino: “Posso riempire tutti i miei fogli bianchi con le più belle combinazioni di parole che sorgono nel mio cervello. Siccome desidero assicurarmi che la mia vita non sia priva di senso e che io non sia solo sulla terra, raccolgo le parole in un libro e ne faccio dono al mondo. Il mondo mi dà in cambio dei soldi, la fama e il silenzio. Ma che m’importa dei soldi, che m’importa di contribuire a rendere più grande e perfetta la letteratura? L’unica cosa che m’importa è quella che non ottengo mai: l’assicurazione che le mie parole hanno toccato il cuore del mondo. Cos’è allora il mio talento se non una consolazione per la mia solitudine? Ma che consolazione spaventosa, che riesce solo a farmi vivere la solitudine con intensità cinque volte maggiore!“  (Stella Marina)

11  Novembre  2022

LORO 
                     

di  Kay  Dick                       



La prefazione a questo libro “Loro“ ( They, 1977 ) della scrittrice inglese Kay Dick, è a cura di Carmen Maria Machado che lo definisce di un genere tra distopia e horror. Terminato il libro, mi son ritrovata a ripensare questa sua definizione, e non sono del tutto convinta di essere completamente d’accordo con lei. A me infatti, più che una distopia, questo libro ha dato la sensazione di essere, o essere diventato , un fedele specchio di quello che sta accadendo oggi nel mondo, quindi l’ho trovato di una attualità spiazzante e disarmante. La Dick ha diretto per diversi anni una casa editrice, e lavorò con autori del calibro di George Orwell, e ritengo che questo suo libro abbia in qualche modo subito l’influenza di questo geniale scrittore. Le distopie , come ben sappiamo, talvolta anticipano possibili scenari futuri, con una capacità di chiaroveggenza spesso inquietante. Non importa se poi le cose non accadranno nell’esatto modo in cui sono state narrate, ma comunque accadranno, riuscendo ad accadere abbastanza verosimilmente nella vita reale - come in questo caso - magari dopo qualche anno o qualche decennio. 

“Loro non hanno un governo, non hanno un credo, non hanno pietà. L’attimo prima sono metodici e deliberati nella loro crudeltà, quello successivo assurdamente sconsiderati e barbarici. Loro si spostano a bordo di barche su canali ed erigono sinistre torri sulla costa dove i ribelli vengono rinchiusi e i loro ricordi cancellati. Loro disprezzano l’arte, le persone che vivono da sole, l’eccessiva manifestazione delle emozioni, loro sottraggono romanzi e dipinti, loro bruciano poesie e spartiti musicali. E loro puniscono chiunque opponga resistenza“. “Loro“ sono quindi coloro che attaccano, che distruggono, sono una forza bruta e brutale difficile da individuare perché “loro non portavano le scarpe“, giungono all’improvviso e devastano, la loro forza è l’imprevedibilità, l’arbitrarietà. 

“I ribelli“, tutti gli altri che non sono loro, principalmente artisti, amanti dell’arte che cercano scampo fuori dalle città, ritirandosi sulla costa, dove una natura spumeggiante e magnifica fa da controcanto a questa sistematica, cieca devastazione. Loro usano tutti i mezzi a disposizione per cancellare la memoria dei ribelli, per ridurre al silenzio chi ancora amerebbe esprimere e trasmettere delle emozioni. Pittori che ancora vorrebbero dipingere, vengono accecati. Scrittori vengono mutilati, musicisti resi sordi. Una costante, atroce, orribile desensibilizzazione per privarli della memoria e della loro unicità. Loro riusciranno a introdursi ovunque, spiando costantemente i ribelli, infiltrandosi tra loro. I ribelli creeranno piccoli gruppi di resistenza, tentando di non perdere la memoria, sforzandosi quotidianamente di ricordare intere trame di libri, poesie e canzoni. La bellezza di ogni singolo colore. Opponendo tutto il loro essere contro questa macchina nata per distruggere, per annientare, per cancellare l’identità di ogni singolo essere umano. La natura sembra venire in aiuto agli animi dei ribelli, elargendo continuamente bellezza, di cui loro avidamente si nutriranno per riuscire a resistere. I libri inizieranno a sparire dalle biblioteche e poi da ogni casa, prima le poesie di Shelly, i Diari di Katherine Mansfield, l’autobiografia di John Stuart Mill. A poco a poco tutti, uno dietro l’altro, così pure come ogni quadro della National Gallery, e poi ogni quadro da ogni casa privata.

Loro temono più di ogni cosa la vita solitaria, il singolo per loro è una minaccia, la sua capacità di pensare autonomamente. Così come le parole - le temono - ne hanno paura. Le cancellano, se ne serviranno sempre meno, fino a renderle superflue. Tenteranno una graduale e sempre più totale dismissione dei centri d’arte, delle abitazioni di proprietà privata dei singoli cittadini, favorendo i “ ritiri “, dove ogni ribelle potrà “ guarire “, fino alla totale perdita di identità. Non ci sono porte né finestre in questi ritiri, e questo affinché gli ancora vulnerabili trovino finalmente pace e si adattino alla nuova vita in comune. Alla pace del silenzio “. Ma i ribelli resisteranno, sono fatti della stessa materia dei sogni, sono esseri appassionati, riusciranno a mantenere aperta la strada per l’immaginazione creativa. Continueranno a creare poesia, anche là dove c’è solo devastazione. Quello che conta e quello per cui lotteranno si riassume in una manciata di parole: “Dobbiamo sfruttare il nostro tempo nel modo più creativo possibile: parlando, amando. Bisogna preservare le linee di comunicazione, tenerle aperte perché altri le usino quando ne avranno bisogno”.

È bene tenerle sempre a mente queste parole, viverle e respirarle ogni giorno, prima che una qualsiasi distopia non ci colga impreparati e ci cada addosso come una maledizione, mentre il mare inonderà sempre di più la terra con il suo rigoglioso e spumeggiante manto, infrangendosi sulla linea incandescente dell’orizzonte, ricoprendo e azzerando tutto, annullando ogni residua, invisibile, superflua traccia umana.    (Stella Marina)

 

11  OTTOBRE  2022

Le Particelle Elementari

di Michel Houellebecq

 “Il 1° luglio 1998 cadeva di mercoledì. Fu quindi logico, benché anomalo, che Djerzinski la sua bevuta d’addio la organizzasse di martedì. In mezzo alle vaschette di congelamento degli embrioni, e un po’ schiacciate dalla loro massa, le bottiglie di champagne vennero accolte dal refrigeratore Brandt deputato a conservare i prodotti chimici d’uso comune.“

Questo è l’incipit bellissimo del primo capitolo del libro, ma c’è anche un altrettanto bellissimo incipit nel prologo, ma di quello magari ne parlerò più avanti. Avevo deciso di rileggere questo romanzo indipendentemente dalla candidatura dello scrittore al premio Nobel per la Letteratura 2022 (che poi non ha vinto!) perché con Houellebecq ho uno strano rapporto di amore e odio, e gli ultimi libri che ha scritto non mi sono piaciuti poi molto. Ma questo sì, questo libro l’ho amato, tanto da dovermelo rileggere, per capire da dove è iniziata la crisi tra di noi e perché. La domanda potrebbe diventare anche più generale, e cioè cosa cerco adesso nella letteratura, e se ancora risponde- corrisponde alle mie esigenze di lettrice, se è capace di assolvere ai miei desideri. La risposta non è del tutto positiva, pochi romanzi riescono davvero a interessarmi e a non annoiarmi, spesso ricorro a saggi, e quasi sempre alla poesia. Ma il romanzo è davvero in via di estinzione? O sono gli scrittori ad esserlo?

O si cerca qualcosa di diverso nella letteratura in questo secolo travagliato e apocalittico? In questi anni dolenti in cui si tirano le somme sul genere umano, sulla sua comparsa fugace, splendente e folgorante su questo pianeta rotante nel sistema solare posto ai confini nebulosi di una via lattea in continua espansione. Un giorno sarà possibile descrivere l’uomo nella sua interezza spogliandolo dalla polvere dei secoli, rimarranno la sua vitalità, il suo guizzo intellettivo, la sua disperata ricerca di felicità, il suo bisogno dell’altro, mentre le sue colpe saranno oscurate forse dal silenzio del mondo. Oppure rimarranno impresse nella memoria della Terra, ci saranno ancora i segni tangibili di quella sua distruzione continua e ingiustificabile, di una egemonia assunta con la tirannide, per una ingiustificata presunzione di superiorità che ne ha poi inesorabilmente segnato la sua stessa estinzione.

Cosa rimarrà infine dei libri, di ogni libro, non ci è dato sapere. Qualche uragano se li ingoierà tutti, uno dopo l’altro, rimarranno parole staccate nella memoria di qualche ostinato pc, ogni singola parola tornerà ad essere acqua, sempre più incorporea, senza peso, una sottospecie in potenza all’interno di particelle elementari: inerte, immateriale, senza vita. Nessuno sarà più capace di pensarle le parole, nessuno avrà più la forza e il coraggio di pronunciarle. Nessuno sarà più in grado di sondare il mistero e quindi di immaginare il mondo. Oppure nascerà, riuscirà a nascere prima della fine, una nuova creatura, asessuata e intelligentissima, capace di dar un nuovo ordine al mondo, portandolo ad un livello di vita superiore, dove i nuovi esseri saranno in grado di cooperare per il bene comune (sigh!). Forse questo è anche l’ultimo grido di speranza di questo libro di Houellebecq, un’intelligenza artificiale potrebbe salvare l’uomo da se stesso, liberarlo dai suoi sentimenti, dai suoi istinti primari. Un uomo nuovo, o forse una specie nuova, “asessuata e immortale, una specie al di là dell’individualità, della separazione e del divenire.” Non più umana, annullando i suoi impulsi ma anche le sue emozioni, animata da principi kantiani di una morale pura, unica e universale.

“Oggi noi viviamo in un nuovissimo regno, e l’ordito delle circostanze avviluppa il nostro corpo, bagna il nostro corpo, in un alone di gioia.

Ciò che talvolta agli uomini d’un tempo capitò d’intuire grazie alla musica noi lo realizziamo ogni giorno nella realtà pratica.

Ciò che per essi era campo dell’inaccessibile e dell’assoluto per noi è cosa semplicissima e ben nota.

Eppure, quegli uomini non li disprezziamo; noi sappiamo di dover molto ai loro sogni, sappiamo che non saremmo nulla senza l’ordito di dolore e gioia.

Sappiamo che quando attraversavano l’odio e la paura, quando si urtavano nel buio, quando, poco a poco, tracciavano la propria storia in sé recavano la nostra immagine (…).“

“Le particelle elementari“ è uscito in Francia nel 1998 ( nel 1999 in Italia per Bompiani ) ed è il secondo romanzo che l’autore ha scritto. Narra la vita di due fratellastri francesi, Bruno e Michel, nati rispettivamente nel 1956 e nel 1958 , figli della medesima madre, Janine, nata nel 1928.

L’analisi dello scrittore si focalizza sulla seconda parte del Novecento europeo, sul tessuto politico, sociale ed economico di quegli anni. Bruno e Michel sono i figli esemplari di una società in rapida espansione economica, incentrata sul consumismo di massa a “forte componente ludico-libidica“, proveniente dagli Stati Uniti d’America. Figli di quella liberazione sessuale degli anni ‘60 e di una madre che quella liberazione l’ha vissuta pienamente e in assoluta libertà. La loro solitudine, la loro incapacità di relazionarsi, è la risposta dell’uomo difronte ad una società non più capace di garantire- gestire i valori primari. È la solitudine difronte al nulla, il declino dell’uomo contemporaneo incapace di trovare un vero senso al vivere, delle risposte adeguate in grado di placare la sua ansia di esistere e della sua paura della morte. Entrambi i fratelli sanno incarnarla alla perfezione questa solitudine divorante, pur partendo da diversi punti di vista, pur avendo vissuto vite diverse, seppur -a ben guardare- vite speculari. Bruno (Houellebecq stesso?) è un insegnante di lettere perseguitato dal desiderio sessuale mai appagato, mai appagante, Michel un talentuoso biologo molecolare, incapace di provare sentimenti profondi e duraturi. Figli di una madre non certo esemplare, che li ha abbandonati subito alle cure delle due nonne, uniche portatrici e garanti di una umanità capace ancora di salvaguardare la specie. Al di fuori di quest’area di protezione, vige la guerra del singolo contro il mondo e contro se stesso, una forma di autodistruzione difronte al silenzio e all’ottundimento del mondo.

L’adolescenza dei due fratelli scorre nel pieno degli anni Settanta, in attesa dell’amore e della possibilità di innamorarsi ma anche in quella libertà di costumi che sembra mettere in crisi ogni valore del passato.

Sono gli anni del liceo per tutti e due, mentre la madre -ignorandoli completamente- ospita giovani sbandati e giramondo nella sua casa a Cassis, dopo aver trascorso anni in California, nella comunità di Eselan, fondata da Francesco di Meola di cui lei era stata l’amante. E talvolta-spesso la madre ospita anche nel suo letto questi giramondo che regolarmente mantiene a spese dell’ex marito (uno dei tanti ex…) E mentre i corpi sembrano esibirsi in una libertà animale, selvaggia, privi ormai di qualsiasi ritegno o autocensura, Bruno inizia a leggere Kafka, terrorizzato dalle ragazze ma tormentato dal sesso, mentre Michel si dedica a libri sulle equazioni differenziali sviluppando il suo interesse per le scienze. Sono anni difficili e traumatici, sono anni di formazione, dopo infanzie dissestate da genitori pressoché assenti. Il loro ambiente, il loro secolo, la loro famiglia, ha generato due esseri complicati e incapaci di relazionarsi in modo positivo, equilibrato, con il prossimo. Sono relazioni prive di sentimenti, sono solitudini disperate : il nulla grava e orbita, morde e annichilisce. Michel si sente “separato dal mondo da qualche centimetro di vuoto che formava intorno a lui un guscio o un’armatura.“

Attraverserà le umane emozioni talvolta sentendosele vicinissime, ma senza mai riuscire a viverle completamente, conducendo un’esistenza puramente intellettuale. Così fino ai suoi quarant’anni, passando per un quasi amore senza riuscire a viverlo, o vivendolo in modo straziante, come ultima possibilità di autentica relazione umana. Poco diverso il percorso di Bruno, anche se lui si concede alcune possibilità in più e forse per lui alla fine l’amore arriverà, solo dopo aver attraversato in lungo e largo la via del desiderio e le vie notturne della prostituzione, e aver percorso e attraversato i pensieri di Aldous Huxley nell’attesa di un nuovo mondo possibile, da cui sarebbero scomparsi -secondo Aldous!- tragedie e sentimenti estremi, e dove le eventuali residue “sacche di depressione“ sarebbe stato possibile curarle per via farmacologica: “con un centilitro guarisci dieci sentimenti“.

L’evidenza della morte materiale incombe sulle vite di questa generazione senza dio, senza sogni e con poche speranze, con poche cose da dire o emozioni da comunicare. Attraverso questi due fratelli parlano cento anni e più di storia, di relazioni sociali, di mutazioni metafisiche.

“Cerchiamo utenti per un corpo sempre più sfinito, riottoso, ostile e scompariamo Nell’ombra di tristezza Fino al disperare vero…”

Fino al disperare vero. Come Bruno nei sordidi locali per coppie, e infine nella clinica psichiatrica in cui cerca una tregua da se stesso. E come Michel in quel suo ultimo viaggio in Irlanda, la sua ultima destinazione di uomo vissuto in un vuoto siderale, dove pone fine si suoi studi e ai suoi risultati scientifici. Probabilmente dove pone fine anche alla sua stessa vita ritornando al mare, all’elemento acqua. Dove tutto ha avuto inizio. E per tornare all’incipit di cui avevo accennato, l’incipit del prologo, “questo libro è innanzitutto la storia di un uomo, di un uomo che passò la maggior parte della propria vita in Europa occidentale nella seconda metà del Ventesimo secolo. ( …) I sentimenti d’amore, di tenerezza e di fratellanza erano in gran parte scomparsi; nei loro mutui rapporti, i suoi contemporanei davano assai spesso prova di indifferenza e di crudeltà.“

Non è facile leggere questo libro e restare indifferenti. Non è stato facile rileggerlo adesso in un momento storico in cui la crudeltà sembra ed è l’unica espressione umana praticata.

Credo che però “leggersi“ sia l’unico modo per poter intervenire, per vedersi, guardandosi dritto negli occhi. Houellebecq ha ben chiaro quello di cui sta scrivendo, ha ben chiaro chi sia l’essere umano, lo conosce come un padre, come un figlio, come un fratello, come un se stesso. Lo attraversa nella sua miseria e nel suo splendore. Lo vorrebbe addirittura preservare dalla fine, trasformandolo in una nuova specie splendente.

E di libri come questo, di romanzi come questo, io credo di aver bisogno ogni giorno. Finché si saprà scrivere così, il romanzo esisterà.          (Stella Marina)

11  Settembre  2022

Il libro delle case

di Andrea Bajani

 Si può parlare di un libro anche se non ci è piaciuto? Anche se la fascetta lo decanta come un libro bellissimo a me non è piaciuto; “Bajani scandaglia come nessuno aveva mai fatto il luogo dove più abbiamo scoperto e ancora insisto con quel: “ non mi è piaciuto“.

Se adesso provo a voltare il libro per trovarmi difronte al retro copertina, la situazione cambia di poco, anzi forse si aggrava: “La scrittura di Bajani ha un’energia irrefrenabile“, così scrive Enrique Vila-Matas. E inoltre:” Insieme a Rachel Cusk, Otessa Moshfegh, Annie Ernaux, Joyce Carol Oates, Richard Powers, Andrea Bajani è uno degli scrittori che ammiro di più, e questo lo asserisce - udite udite ! - Edmund White. Ecco che qui mi trovo davvero in difficoltà, perché White cita scrittori a me molto cari e molto amati, in particolare Richard Powers che è un gigante, uno dei più grandi scrittori viventi. Allora, cosa è che non ha funzionato nel libro? O più precisamente, che cosa non ha funzionato per me? Il problema quindi è mio e soltanto mio? Oppure mi posso appellare a criteri oggettivi, inconfutabili e universali che possano valere per tutti? Difficile rispondere, ma ci proverò. Proverò innanzitutto a chiarire a me stessa perché il libro non mi sia piaciuto.

Innanzitutto mi ha annoiato, e questo ritengo sia un fatto grave per uno scrittore: annoiare il proprio lettore non conviene, non va mai bene, non si fa. Mentre lui mi raccontava di ogni casa della sua vita, io non vedevo l’ora di uscire da ogni stanza, ambiente, situazione che lui andava descrivendo. Nonostante la scrittura “irrefrenabile“, io davvero sono stata in difficoltà nel proseguire con la lettura, cercavo appigli, ricordi personali, il suono e la bellezza di alcune parole per riuscire a stare al passo, nelle righe, nelle situazioni evocate. Ogni tanto andavo a rileggermi la frase in esergo per lasciarmi convincere a proseguire, ma la frase in esergo è di Milan Kundera, ed è estratta da un libro bellissimo: “Xavier rispose che la vera casa non è una gabbia con l’uccellino né un armadio per la biancheria, ma la presenza della persona che si ama. E poi le disse che lui stesso non aveva una casa, o meglio, che la sua casa erano i suoi passi, nel suo andare, nei suoi viaggi. Che la sua casa era là dove apparivano orizzonti sconosciuti. Che lui poteva vivere solo passando da un sogno all’altro, da un paesaggio all’altro”. Tutto molto bello, ma scritto appunto da Milan Kundera in “La vita è altrove“, e qui la scrittura è davvero magnifica, un libro sicuramente da rileggere. E così, dover tornare a “Io“, protagonista del libro di Bajani, un lui stesso travestito e mascherato da Io, non è stato sempre facile,  quasi un dovere da buon lettore.

Il libro inizia con “la casa del sottosuolo“, che è la casa dell’infanzia , e il racconto parte dal 1976. Bajani è nato nel 1975, quindi parte da quando aveva più o meno un anno. Una casa con tre stanze da letto, un soggiorno, una cucina e un bagno. Umida, perché allo stesso livello della strada. Per accedere all’appartamento - scrive Bajani - bisogna scendere al primo piano sotterraneo prendendo una scala a spirale. Le cantine sono allo stesso livello dell’appartamento, e due porte di legno massiccio indicano che là sotto vivono altre due famiglie imprecisate. Ecco che qui si aprirebbe uno spiraglio interessante per il lettore, ma purtroppo immediatamente viene chiuso, non si può andar oltre, varcare la soglia degli altri appartamenti, siamo costretti a rimanere in casa di Io per seguire le sue vicende familiari che potrebbero anche non interessare. Bajani, ma non ti ha mai sfiorato questo dubbio? Tenere aperti quei due appartamenti sarebbe stata una piacevole via d’uscita, invece no. Solo madre, padre, nonna, sorella ed Io. L’unica cosa interessante è la presenza di una tartaruga, la stessa che è presente in copertina, nell’illustrazione di Emiliano Ponzi. Anche nella mia infanzia c’è stata la presenza di una tartaruga, e anch’io i miei primi passi li ho fatti assieme a lei in giardino, inseguendola e cercandola ovunque. Dal 1976 si fa un vertiginoso salto nel 1998, ai salti temporali bisogna abituarsi subito se si vuol stare, rimanere nel libro. E questo forse è un altro elemento che non mi è piaciuto molto, un elemento di disturbo, costretta a traslocare in continuazione, a saltare anni a a piè pari senza venir mai consultata. Tutto questo sforzo richiesto solo per una casa “transitoria“, in una città diversa da Roma, la prima abitazione di Io appena laureato a Torino. Ma subito dopo si salta nel 2009, nella casa di Io sposato, la prima casa di una famiglia tutta sua, composta da Io, moglie e figlia (di lei). Naturalmente ci sono descrizioni dettagliate della planimetria, come ogni volta Bajani fa per ogni casa in cui ha vissuto. In modo che ci sia chiaro quello che stiamo immaginando o forse perché sia chiaro a lui, perché i ricordi non sfuggano da quelle misure precise espresse in metri quadrati, non sfuggano le zone illuminate e le zone in ombra, dove la sua vita si è svolta e si è formata. Dove affetti sono stati consumati e vissuti intessendo la trama e la consistenza di un’esistenza. Escono fuori caratteri e situazioni, un padre problematico, una nonna che cerca il perdono del figlio senza mai riceverlo, dedita alla solitudine e al bere, una madre silenziosa e in ombra, una sorella di cui poco si conoscerà. Si intuiscono grida, incomprensioni, risentimenti che le pareti di ogni casa trattengono, mascherano e attenuano. Le zone esterne potrebbero essere vie di fuga, ma raramente vengono contemplate. Si sta lungo i bordi di metri quadrati, osservando la luce che filtra da sotto le porte. Si potrebbero spalancare porte e finestre e far entrare l’aria. Perché a volte sembra quasi di non riuscire a respirare. C’è la tensione di vite che si sfiorano senza toccarsi mai per davvero. Ecco forse un altro elemento di disturbo per me: io che ho bisogno di spazio, non uno spazio così sempre delimitato e preciso. E queste metrature forzate, esasperate, mi hanno indotto in sofferenza. Costretta a vivere la vita di Io, senza via d’uscita. Cercavo quindi di ricordare le mie case, quelle in cui ho vissuto, le metrature e gli spazi condivisi con la mia famiglia, la luce di certe giornate, i rumori, le parole, ma dovevo rientrare subito nelle planimetrie di Bajani per non perdere il filo del racconto, che già scorreva rapido su salti temporali, in cui il presente era il passato, e il passato il futuro. Una vita senza nomi di persona, ma solo Madre, Padre, Sorella, Nonna, Moglie, Bambina e Parenti. E naturalmente, la Tartaruga che ogni tanto fa capolino tra le pagine- muro di questo libro. Ovviamente c’è la descrizione della casa di montagna e della casa del mare, le possibili residenze estive di qualsiasi famiglia italiana. C’è la casa del sesso, o meglio, la casa in cui Io per la prima volta ha scoperto il sesso. C’è la casa semovente che è la macchina, ed è un’estensione della casa di Famiglia. C’è la casa di Parenti, in cui si consumano liti e risentimenti tra una portata e l’altra, e poi c’è la casa del Prigioniero. Ecco non poteva certo mancare il riferimento ai nostri anni bui, alla storia di un paese che ha sulla coscienza la morte di Aldo Moro. Ma non poteva mancare anche la Casa della morte del Poeta, con tutta la sua planimetria e la possibilità di una vita che invece fu stroncata da una morte violenta. Sullo sfondo del romanzo si alternano le gigantesche ombre di Aldo Moro e di Pier Paolo Pasolini. Sono urli silenziosi che rimbalzano sulla struttura portante di ogni casa, che impongono un’attenzione severa su quei rovinosi anni Settanta. Ma intanto la vita sembra continuare, pulsare nel frenetico spostamento di luoghi, di corpi che cercano case più o meno ampie, definitive, con ricordi che si sommano o si sottraggono a seconda dei casi. Ma la casa per lo scrittore è anche stata una cabina telefonica, in cui si sono consumati desideri, aspettative, attese. Le cabine telefoniche erano bellissime, e purtroppo non esistono più. Sono state travolte e spazzare via dalla tecnologia, ma la bellezza di quel rumore di gettone che scendeva poco prima di comporre il numero desiderato, è ineguagliabile e -soprattutto- è indimenticabile. C’era un attimo di sospensione, di possibile ripensamento. C’era lo spazio per retrocedere o per continuare a desiderare. Questa casa io l’ho vissuta e anche molto amata.

L’idea del libro non era neppure niente male, non so dire di preciso cosa sia andato storto, un po’ la noia forse e quell’angusto stare in spazi chiusi, costretta a seguire percorsi come in un labirinto dove il tempo mi rimandava immagini contrastanti, simultanee di vita vissuta di cui forse a me poco importava. Mi dispiace, ma è andata così. È andata così per me. Vi auguro di aver maggior fortuna, e di trovare una sintonia migliore con l’autore, che è -senza alcun dubbio- un bravo scrittore. Io mi prendo e mi perdo nei meravigliosi orizzonti sconosciuti di Kundera, passando da un sogno all’altro. Da un paesaggio all’altro. Finalmente libera di immaginare. Ma voi il libro magari leggetelo, fatevi un’idea personale, perché in fondo è quello che importa. Ogni libro ha il suo lettore ideale. Ma ha anche il suo non lettore. Ed è giusto così.              (Stella Marina)

11  Agosto  2022

Flâneuse. Donne che camminano per la città

a Parigi, New York, Tokyo, Venezia e Londra.

di Laura Elkin

 La parola francese flâneur, “così speciale ed elegante, così francese con la sua a con l’accento circonflesso“, il cui significato è persona che vaga senza meta, è una parola che nasce – come ci ricorda Lauren Elkin – nella prima metà dell’Ottocento, nei passages parigini, le gallerie coperte tutte da vetro e acciaio. Una “figura che parla di privilegi e agi maschili“, provvista di tempo e denaro, che poteva permettersi di vagare in ogni angolo, vicolo, quartiere di qualsiasi città. Una parola in sé però discriminante che indicava il “camminatore“ urbano e che escludeva le donne da questa nobile e oziosa arte, che comprende in sé anche la rêverie e la percezione di quegli accordi silenziosi e nascosti che si celano nell’anima misteriosa di ogni luogo. Così volgere al femminile questa parola e parlare finalmente di flâneuse è l’intento e il viaggio di questo bellissimo libro, una conquista che non sempre è stata facile e forse mai completamente acquisita da parte delle donne. Perché il camminare al femminile spesso e per troppo tempo ha sottinteso altro, purtroppo…

Lauren Elkien è una scrittrice americana nata e crescita a New York, che, innamoratasi un giorno di Parigi mentre si trovava lì, ha poi deciso di viverci per vent’anni. Ed è qui che ha iniziato a pensare a questa bellissima parola flâneuse, passeggiando lei stessa e perdendosi in una città a lei sconosciuta, estranea, con una lingua straniera completamente da apprendere, città che andava però a mano a mano scoprendo, attraversandola a piedi di continuo, lasciandosi trasportare dalla trama invisibile delle sue possibilità. E’ qui che ha imparato ad avventurarsi per le strade di una città fatta a misura d’uomo, pensata per i pedoni, ed è qui che ha riallacciato i contatti con quelle donne ribelli che hanno tentato di conquistarsi il sacrosanto diritto di poter camminare liberamente senza essere giudicate o fraintese, di poter finalmente passeggiare per le strade di una città esattamente come potevano fare gli uomini, di poter essere una camminatrice urbana, niente più, niente di diverso. Nella città scopriamo continuamente i nostri possibili io“, ci suggerisce la scrittrice. Il libro inizia con l’immagine di una famosa fotografia in bianco e nero scattata dalla fotografa tedesca Marianne Breslauer, nel 1937. Ritrae una donna mentre si accende una sigaretta, ferma su un marciapiede di una via di Parigi, e siamo certi - osservandola - che a breve riprenderà a camminare, fumando, nel suo elegante completo nero, mentre la sua ombra ancora si rifletterà per qualche istante sulla parete bianca del muro di un palazzo. Dove andrà? Non ci è dato saperlo, ma sembra molto decisa e indipendente, trasgressiva al punto giusto.

In fondo si cammina per tanti e disparati motivi, si cammina semplicemente anche per riordinare i pensieri come dicevano gli antichi: Solvitur ambulando. O per una sensazione di appartenenza, di radicamento ad un luogo. O - come dice Lauren Elkin - “cammino perché, in un certo senso, camminare è come leggere. Vieni messo a parte di vite e conversazioni che non hanno niente a che vedere con le tue, e che puoi ascoltare di nascosto. A volte c’è troppa folla; a volte le voci sono troppo alte. Ma sei sempre in compagnia. Non sei solo. Attraverso la città fianco a fianco con i vivi e con i morti.“ Perché cammino, si chiede l’autrice. E la sua risposta potrebbe essere identica alla mia. Perché mi piace. Mi piace il ritmo, la mia ombra che mi precede sul marciapiede. Mi piace potermi fermare quando voglio, appoggiarmi a un edificio e scrivere un appunto nel mio diario, oppure leggere una mail o mandare un messaggio, e che il mondo si fermi insieme a me. Camminare è disegnare una cartina con i piedi. E anch’io, come Lauren Elkin, ogni giorno, ogni volta che mi è possibile, mi avventuro per le strade della mia città, che adesso è Roma, per ridisegnarne i tratti, per conversare con me stessa, per scoprirmi, per conoscermi, per trovarmi-ritrovarmi ancora. 

La flâneuse esiste ogniqualvolta “deviamo dalla strada che è stata tracciata per noi, partendo alla ricerca di un territorio nostro. “Un territorio nostro, che bella immagine e quanta fatica ogni volta, così difficile da visualizzare perché impalpabile. Non è mai scontato, e non è sempre possibile riuscire ad averlo, a viverlo. Eppure è l’unico luogo con cui sento un senso di appartenenza totale, è un luogo sacro ed inviolabile per me, una mappa mentale che i piedi cercano di circoscrivere e di inventare ogni volta. Mi ritrovo molto nei pensieri di questa scrittrice, nelle sue deambulazioni letterarie, nelle sue scoperte improvvise, folgorazioni come ad esempio la copertina di un libro di una scrittrice gallese a lei sconosciuta che poi scoprì essere la grande, immensa, amatissima Jean Rhys. A me è successo con Fernando Pessoa, in una giornata di apparente “bighellonaggio“, entrai in una libreria e mi innamorai perdutamente di un libro, di un titolo che sembrava riflettere il mio perenne stato: “Il libro dell’ inquietudine“. Per me la Rhys è arrivata alcuni anni dopo, quando precipitai nel suo “Il grande mare dei Sargassi“ e da lì ho stretto un patto segretissimo con lei, di perpetua amicizia. Perché camminare è anche sostare con i propri amici scrittori, è fermarsi a ripensarli, è scoprirli concedendosi una piccola deviazione prendendosi tutto il tempo che serve e di cui si ha bisogno, di cui si ha necessità. Per Jean Rhys Parigi fu un rifugio, e Parigi in quegli anni, i famosi anni Venti, era una gran madre che tutti ospitava e cullava sotto il segno dell’arte. Deve essere stato davvero un grande sogno vivere la città in quegli anni, quel sogno che ha cercato di restituirci Woody Allen nel suo film “Midnight in Paris“. Parigi è una città da vivere a piedi, da scoprire centimetro per centimetro, millimetro per millimetro, senza fretta. Ma un’altra città da percorrere con piacere a piedi è anche Londra, e come diceva Virginia Woolf, “Londra ha un fascino e uno stimolo perenni, mi dà teatro, romanzo e poesia, senz’altra fatica che quella di muovere le gambe per le strade“. Virginia amava camminare, basterebbe leggersi “Una stanza tutta per sé“ per rendersene conto. La Woolf- come nota la Elkin - ricavava tensione emotiva dalle strade, soprattutto osservando le donne. “Le strade affollate sono gli unici luoghi capaci di invogliarmi a fare ciò che altri potrebbero definire pensare “, diceva Virginia. Mi piace guardare le cose, ammetteva, farsi strada nella città fino ai suoi limiti, vedere cosa c’era dietro e trarne ispirazione. “I luoghi” - come scriveva James Joyce- “hanno memoria degli avvenimenti“. A volte si cammina anche per trovare tracce di questa memoria. Come George Sand, che travestendosi da uomo, in un atto assolutamente rivoluzionario, si muoveva tra le strade di Parigi , per osservare quello davvero stava succedendo sotto i suoi occhi, la storia che sarebbe stata scritta e che lei cercava di intercettare, comprendere in prima persona. Sono grandi, immense donne quelle che viaggiano insieme a Lauren Elkin in questo libro, vivetele tutte, passeggiateci assieme, conversateci, hanno lasciato tracce potenti! Non possiamo dimenticarci, almeno io non posso dimenticarmi, della regista belga Agnès Varda, che nei quartieri delle città ha spinto la sua macchina da presa soprattutto perché: “Capendo le persone capisci meglio i luoghi, capendo i luoghi capisci meglio le persone. “È il divenire che interessa a Varda, non dove ti trovi o dove stai andando. Ma le trasformazioni che stai vivendo.  Le trasformazioni che avvengono dentro di te e che la strada ti rimanda, quasi fosse uno specchio. 

Concluderei, ma è un libro che per me non si conclude, ci viaggerò spesso assieme, con una breve, brevissima frase: “Ovunque tu sia, attraversa la strada, apri gli occhi.“  Buon viaggio…           (STELLA  MARINA)


11  Luglio  2022

La morte dell’idolo

di Henry James




Nel marzo del 1960 presso le Officine Grafiche Fratelli Stiantidi Sancasciano Val di Pesa fu stampato questo volume – una raccolta di due racconti di James – pubblicato da la Nuova Accademia Editrice nella collana “I Gabbiani“. La traduzione a cura di Lea Formigari, e la presentazione a cura di Carlo Izzo. Generalmente le introduzioni ai libri le leggo per ultime, dopo che del libro mi sono fatta un’idea personale, senza interferenze , seppur autorevoli, ma questa volta ho fatto un’eccezione, e mi sono subito imbattuta in due parole inglesi fondamentali per comprendere l’arte della scrittura in generale, e il lavoro di scrittura di questo maestro in particolare: “a dedicated profession“, parole che indicano, sottolineano appunto, una professione alla quale bisogna darsi anima e corpo , che richiede una dedizione assoluta e un immenso spirito di sacrificio. Saper narrare è infatti un’arte, e oltre all’indubbio talento bisogna anche essere provvisti di questa dedizione assoluta, quasi monastica, che non accetta compromessi. Cosa di cui HenryJames era senza dubbio provvisto, questo straordinario scrittore nato in America a metà del 1800 (1843), naturalizzato poi europeo. Può essere considerato un ponte tra due mondi (America ed Europa) e tra due secoli, ponendosi come anticipatore del romanzo psicologico. Sullo scrivere ha parlato e detto molto essendo stato anche critico letterario, ed ha sottolineato spesso che il linguaggio viene spesso utilizzato in modo approssimativo, casuale, sbadato, tanto che ne provo un fastidio intollerabile. Non si creda che questa mia reazione corrisponda a un ‘intolleranza per il prossimo: il fastidio peggiore lo provo sentendo parlare me stesso. Per questo cerco di parlare il meno possibile, e se preferisco scrivere è perché scrivendo posso correggere ogni frase tante volte quanto è necessario per arrivare non dico a essere soddisfatto delle mie parole, ma almeno a eliminare le ragioni d’insoddisfazione di cui posso rendermi conto     “La letteratura – dico la letteratura che risponde a queste esigenze – è la Terra Promessa in cui il linguaggio diventa quello che veramente dovrebbe essere “. Con queste premesse si può adesso procedere nell’analisi di questi due racconti che sono piccoli capolavori di perfezione stilistica, intessuti di mistero e di chiavi di lettura affidate all’abilità del lettore con cui lo scrittore intesse un silenzioso dialogo e una sottile- ironica, a tratti perversa, verifica di abilità. Non soltanto è difficile essere bravi scrittori, ma parimenti difficile è poter essere bravi lettori. Una nota polemica, spesso canzonatoria, che attraversa trasversalmente in modo più o meno velato, la struttura di tutti e due racconti qui proposti, nei quali si indaga con indubbia perizia da parte dell’autore del perché si scriva, del rapporto tra opera e vita, del rapporto tra scrittore e il suo lettore, analizzando con attenzione quella curiosità morbosa e insulsa che si scatena attorno ad un autore famoso e sull’ effettiva validità di un’opera d’arte. Nel primo racconto, “La morte dell’idolo“, scritto nel 1894, sarà proprio un giovane giornalista a voler tutelare la privacy di un anziano scrittore, che vorrebbe solo dedicarsi alla sua arte tra le mura silenziose della sua casa, così da diventarne improvvisamente il protettore (forse per ricerca di fama personale?) mentre un’improvvisa notorietà investirà l’autore poco prima di morire. Costretto a “ballare“ nel cerchio convulso della notorietà, con personaggi molto famosi e alla moda, mentre afflitto da gravi problemi di salute, pagherà con la vita questa perversa morsa che lo ha portato sotto i riflettori della ribalta, risucchiandolo suo malgrado, mentre il suo incompiuto capolavoro andrà disperso, probabilmente dimenticato su un treno da un ammiratore sprovveduto, senza che nessuno riesca più a trovarlo. Un ‘ironia creata da giochi di specchi che si rimandano immagini rovesciate, dove la profondità si trova in competizione con la superficialità, con l’apparenza, con pagine non lette, e che non saranno mai lette, costruendo una poco edificante vetrina di personaggi mossi soltanto in superficie da una vanità fine a se stessa, mentre le parole di un ‘opera scritta, ogni singola parola, avrebbero illustrato in modo esatto la vera essenza di un uomo, la vera cifra di uno scrittore se solo fossero state lette con attenzione, con quella dedizione autentica di un vero lettore. Riprende questo gioco divertente e perverso nel suo racconto più famoso, il secondo di questa raccolta, “La cifra nel tappeto“, pubblicato  nel 1896, dove ancora una volta il protagonista è un giovane giornalista che viene incaricato dal suo giornale di investigare sulla vita privata di un noto scrittore, che tra l’altro è anche il suo autore preferito. Lo scrittore in questione risponde al nome di Hugh Vereker, ed il giornalista sarà alle prese con una sfida, con la ricerca e l’attesa di un senso, portati alle loro estreme conseguenze, fino là dove poi dovrà prendere consapevolezza che “la cosa attesa è il nulla in agguato“. Il romanziere gli ha infatti “confessato“ che in ogni sua opera è presente un disegno, una cifra, che nessuno è mai riuscito perfettamente ad intravedere e lo invita a provarci, a trovare il significato, a trovare quel filo conduttore che regge tutta quanta la sua opera, rintracciabile- se si è abili - in ogni suo libro, se si riesce davvero  a penetrarne il senso. La sfida è appunto quella di riuscire ad individuare “la figura nel tappeto“ , e questa sfida si gioca tutta sul tempo dell’attesa di una possibile rivelazione, mentre finzione e realtà interagiscono sempre più strettamente, fino a confondersi, lasciando una sottile, invisibile soglia di penetrabilità. “Nessuno capisce nulla!“, dirà lo scrittore ad un certo punto del racconto, e per quanto ci crediamo sottili e sufficientemente preparati, questa sua espressione rappresenta quasi una verità filosofica inconfutabile, effettivamente non capiamo mai un accidente della vita. Per quanto ci crediamo vicini a risolvere l’enigmatica cifra di ogni vita, non ne siamo mai invece così distanti dal comprenderla veramente. Forse lo sforzo è davvero vano, eppure non smettiamo mai di provarci. Sulla soglia di una possibile rivelazione, sempre ad inseguire un possibile significato. Uno scherzetto non da poco, se poi il possibile significato non si palesa mai. E James lavorando su questo scherzetto, si diverte in questo racconto a portarlo alle sue estreme possibilità, scaraventandoci nel nulla, febbricitanti per la folle corsa tra gli indizi, decifratori di messaggi inesistenti, assetati di assoluto. Gli specchi ci rimandano l’ansia di questa folle corsa, l’ironia implicita a cui si affida la penna di James, immersa già nell’inchiostro dell’io, dell’essere, che nel giro di pochi anni troverà la sua espressione migliore e più compiuta. L’attenzione che si deve a James non è mai troppa, andrebbe riletto con molta attenzione e spesso. Un maestro è un maestro, e lo si deve ascoltare perché sa indicare le giuste direzioni da seguire. Mi è piaciuto infinitamente rileggerlo in queste calde giornate di luglio, appuntandomi indizi per prossime rivelazioni che ancora una volta mi porteranno a specchi, a quella ricerca del vero in letteratura, finzione che è verità e che sa rispondere, a volte, alle imprevedibili intermittenze del cuore   (STELLA MARINA)

11  Giugno  2022

La cronologia dell’acqua             
di Lidia Yuknavitch                       

L’acqua. Disse. Sanguini ancora un pò. Acqua su un corpo.   Una frase brevissima,  che già racchiude tutta la sostanza di cui è fatto questo libro, la si trova appena sotto l’incipit di questo romanzo di Lidia Yuknavitch, scrittrice statunitense. In copertina dell’edizione italiana, un dipinto della pittrice Samantha French, che ancora una volta evoca l’acqua, la richiama come primo elemento, elemento da cui ogni cosa ha preso vita, noi siamo fatti di acqua, siamo circondati da acqua. E di acqua e di sangue è fatto questo libro. Una donna alla ricerca della propria identità, una donna problematica, con una vita non semplice alle spalle, che lotta per trovare se stessa e il suo posto nel mondo. E’ un memoir, un libro autobiografico raccontato in prima persona. Il nuoto e la letteratura sono i due punti saldi attorno a cui si muove la vita di Lidia. Scriveva Gaston Bachelard : “ Basterà un vento della sera perché l’acqua che si era fatta muta riprenda a parlarci… Basterà un raggio di luna perché il fantasma cammini di nuovo sulle sue onde “.

Il libro si apre con la morte di un figlio, una bambina, con “ciglia lunghissime“, nata morta dopo trentotto ore di travaglio. E già l’acqua, acqua su un corpo straziato dal dolore, che purifica, che lenisce, che rigenera, acqua che diviene l’elemento centrale di questo romanzo. I ricordi sono sparsi, seguono un processo tutto loro, senza avere una sequenza temporale ben precisa. Sono “lampi“ sulla retina, e quindi, disordinati. Sono immagini che risalgono dalla memoria e cercano un linguaggio per riuscire a narrativizzare la paura e il dolore. All’età di cinquant’anni Lidia Yuknavitch tenta di mettere ordine tra i ricordi, le esperienze di vita, tra tutto il suo vissuto, spesso intriso di dolore. Ma al di là delle grandi assenze, due genitori incapaci di esserlo, con gravi peccati sulla coscienza, specialmente il padre, che ha abusato di lei quando era piccola, e una madre incapace di ribellarsi alla violenza del marito, preferendo di gran lunga bere piuttosto che reagire, al di là di tutto questo, c’è la ricerca di un proprio e personale cammino, individuare la propria strada al di là degli errori degli altri. Questa ricerca è fatta di lacrime e sangue, di errori ripetuti, di alcol, di una continua ricerca di sesso come possibile tregua dal dolore e tangibile testimonianza dell’esistere ma anche come ottundimento, momentanea sospensione da un travagliato sentire. La piena accettazione di sé passa attraverso un percorso spesso lungo e interminabile. Perdonare e perdonarsi, risulta molto difficile, e a volte, persino impossibile. Camminare lungo l’Oceano ha aiutato molto Lidia, ricercare nelle pietre, nei sassi che danno forma alle spiagge, quelle risposte che, altrimenti, difficilmente sarebbero riuscite ad arrivare. “Gli agglomerati rocciosi sono il movimento della terra nella libertà dell’acqua, levigati in un oggettino che puoi tenere in mano, strofinare sul volto.“ “Riconosci che quando non ci sono parole per il dolore, quando non ci sono parole per la vita, ci sono le pietre.“

“Rivolgiti alle pietre e ascolta l’eco del mare. Annusa la laminaria e assapora il sale; percepisci gli animali sottomarini che ti sfiorano al loro passaggio. Ricorda che ci sono parti disseminate nelle acque di tutto il mondo.“ Gli elementi della Natura come cura al male di vivere, come ricerca di un significato più profondo del mero esserci. Le pietre trasportano la cronologia dell’acqua, raccontano storie, mettono in corrispondenza con le sottili trame dell’esistenza. Creano legami sottili con la profondità della terra, con la sua continua, misteriosa metamorfosi. E l’acqua si adegua ad ogni forma, sostiene e penetra ovunque, è un bagnato senza peso. Argina il dolore. Riempie il silenzio e l’incapacità di parlare. I ricordi tornano spesso alla bambina che è stata, alle violenze subite da un padre violento, ma, nonostante tutto, anche amato. Bello, intelligente, con mani sottili ed eleganti. Forse l’amore viene prima dell’odio, ma per riconoscerlo, per comprenderlo, ci vorranno anni. Ci vorranno anni di disagio, di traumi, di silenzio ostinato, la parola trova voce solo sulla carta, su diari nascosti, intrisi di verità e finzione. Acqua e scrittura, come una cura per non soccombere. E poi da bambina si trasforma in “una ragazza in fiamme“ che ha attraversato l’inferno delle droghe e dell’alcol, semplicemente perché tutto questo le dava la possibilità  di svanire: niente più esisteva, nemmeno il tempo. Ma per fortuna il potere curativo e meditativo della scrittura, quel provare a rimettere ordine tra i ricordi e le emozioni, tra gli stati d’animo, hanno permesso di intuire una possibile direzione di salvezza. La fortuna anche di incontrare ottimi maestri, come lo sono stati per lei, Ken Kesey e Kathy Acker, due grandissimi scrittori. E una buona dose di rabbia, che l’hanno aiutata a non desistere ma ad affrontare le difficoltà, a non arrendersi ai primi giudizi negativi. Gli incontri poi con ottimi romanzi e autori straordinari, il non sentirsi più sola e mai più in silenzio, ma circondata da ottimi compagni di viaggio. Il nuoto l’ha aiutata a rimanere a galla, a sentirsi senza peso in un mondo a volte pesantissimo, un mondo a volte insopportabile, oltre che incomprensibile. Leggera e insieme audace, distrutta da un dolore insostenibile, ma capace di tornare alla vita, elaborando quotidianamente il lutto. Rinascere da quello che era stata, per darsi un’altra e diversa possibilità, e scoprire quante volte può davvero nascere una persona, se si concede questa opportunità. Lei che più volte si era spinta al limite della morte affacciandosi sull’orlo dell’io. C’è una sorta di resurrezione quando davanti a sé si spalancano le potenzialità della vita e si hanno cuore, anima e sensi pronti a percepirla, a riceverla. Una ferrea volontà a volerla attraversare, questa volta in piena consapevolezza e con l’arma alleata della scrittura, capace di sconfiggere ogni possibile e temibile mostro che venga a visitarla. “Le storie nascono dal luogo dove in me sono avvenute la vita e la morte. La scrittura, lei è il mio fuoco “. Non è facile abbandonare un io per accogliere un altro, lei scrive. La libertà lascia cicatrici. Forse può uccidere. Almeno uno dei nostri io. Ma va bene così. Ce ne sono altri. E ci si mette molto a comprenderlo, prima ci sono infinite battaglie e molto sangue. E poi - per lei - finalmente la luce, la Vita. E uno splendido bambino che, questa volta, apre gli occhi sul mondo. Miles, con questo bellissimo nome che mi fa pensare a Miles Davis, al suono unico della sua tromba. Lidia, madre ancora una volta. “E questo libro?“ adesso noi le chiediamo. Questo libro è “per voi“, ci risponde. E’ l’acqua in cui ho tracciato un percorso. Entrate. L’acqua vi accoglierà“. Queste splendide parole finali mi hanno ricordato Anne Carson e il suo libro “Antropologia dell’acqua“, la chiusura di un suo capitolo che sembra un monito, oltre che un invito: “Vestiti. L’acqua è profonda“ E noi - che l’acqua è profonda - sì, noi  lo sappiamo.

Sono stata un pò titubante, un pò risentita, un pò arrabbiata, incerta, ho aspettato giorni per essere sicura di aver capito. Avevo bisogno di elaborare, scendere nelle acque profonde. Ma poi è successo: ho amato questo libro. Più a una seconda lettura che a una prima. Ho voluto ripercorrerlo, forse ne avevo bisogno, avevo bisogno di scendere in profondità. E poi ascoltare le storie del mare, raccogliendo sassi di ogni colore e forma, perché mi raccontassero, perché si raccontassero…

Scriveva il drammaturgo Zeami: “Il mondo tanto insicuro e inconoscibile. Il mondo tanto insicuro e inconoscibile. Non sappiamo che i nostri dolori forse Reggono le nostre più grandi speranze.”

(Stella Marina)


11  Maggio  2022

LE PIANURE

di Federico Falco

 

“Lo farò la settimana prossima, o quella dopo ancora, o quando la luna sarà di nuovo calante: dalla luna piena alla luna calante si semina tutto quello che cresce sottoterra, dalla luna nuova alla luna crescente tutto quello che cresce fuori dalla terra ed è a foglia; dalla luna crescente alla luna piena, tutto quello che cresce sopra la terra e dà frutto; dalla luna calante a quella nuova non si fa niente, si aspetta.“

Il libro inizia con il mese di gennaio, e viene subito da pensare all’inverno. Alcuni giorni ancora di festa, per i più fortunati ancora qualche giorno di vacanza. Certo fa solitamente freddo, ma io ho sempre amato il momento di profondo, intimo raccoglimento che questa stagione da sempre offre. Eppure nel libro non si parla di freddo, ma di caldo, di caldo intenso, essendo il libro ambientato in Argentina, ed essendo gennaio il secondo mese dell’estate. Quindi conviene pensare a luglio, per immedesimarsi nelle prime pagine del libro e abbandonarsi ad ascoltare il ronzio delle api, e quel rumore secco che producono “le vacche mentre si frustano i fianchi con la coda per scacciar via le mosche“.

Tutto intorno la campagna, e il primo piccolo paese, fatto di poche case allineate davanti alla stazione dei treni, di due bar-alimentari, una chiesetta e una macelleria, a circa tre chilometri e mezzo di distanza. Il nome del paese è Zapiola, ed è bello da cercare sulla cartina geografica, situato nelle provincia di Buenos Aires, ma così piccolo da risultare quasi invisibile allo sguardo.

Che fare dunque a Zapiola in piena estate con un caldo torrido, cercando di coltivare, seminare, quel poco o niente che la stagione concede? La città è distante, gli amici anche, e poi lì i ricordi sono troppo dolorosi per chi vuol dimenticare l’amore, o meglio, la persona amata che a un certo punto ha deciso, dopo diversi anni, sette per la precisione, di chiudere la storia definitivamente, senza possibilità di replica. Chiusura definitiva e improvvisa, senza nemmeno troppe spiegazioni: fuori di casa e subito! Molto dura da affrontare per Federico Falco una simile situazione (come per qualsiasi altro, in verità) che racconta in prima persona la sua storia, storia di vita vera e non romanzata. La campagna quindi come un modo per ricominciare da capo, di inventarsi nuovamente la vita, e soprattutto, un modo di lenire l’immenso, inconsolabile dolore. Affittare una casa in campagna per almeno due anni per tentare, cercare, provare un nuovo inizio. In fondo lui la campagna l’ha sempre amata, fin da quando era piccolo, quando andava a trovare i nonni per le vacanze estive, e spesso anche nei fine settimana. Ed è là che ha imparato, ha osservato la grande bellezza della natura, il ritmo silenzioso di ogni piccola cosa, il segreto di ogni essere, dal più piccolo al più grande, rimanendone affascinato e turbato.  Un’armonia naturale e segreta, misteriosa, che riposa su dei tempi che apparentemente sembrano morti ma che spesso, all’improvviso, hanno la capacità di trasformarsi in piccoli eventi miracolosi e generare la vita. Coltivare un orto, ogni giorno, con tenacia e  al di là di ogni possibile sconfitta, riprogrammare la propria esistenza sui tempi della natura, isolandosi da tutto il resto, spesso anche dalla scrittura. Lui che scrittore è, ma che ad un certo punto inizia a dubitare persino di esserlo, o di esserlo ancora, o di poterlo essere ancora. Il tempo dell’infanzia invia in soccorso le sue scialuppe di salvataggio, i ricordi aiutano a riannodare i fili della propria esistenza, a trovare l’equilibrio per ricominciare in qualche modo a camminare, l’esempio del nonno paterno esule italiano in terra Argentina, nella pampa sconfinata, gli offre un sostegno continuo, lui che ce l’ha fatta in una terra straniera e su una terra difficilissima, quasi impossibile da coltivare: terra nuda, attraversata dal deserto.” La pianura è dura, la campagna è crudele, non necessariamente consola. “La sua scrittura in questo tempo sospeso, catartico, fatto di memorie, si fa invece segreta, intima, contenuta in un quaderno dalla copertina rigida e fatta per lo più di sfoghi, considerazioni personali, elaborazioni di un distacco difficile da sostenere e da poter spiegare a se stesso. Una grafia furiosa, come scrivere tra le macerie, “stretta, rapida“, fatta di lamenti e imprecazioni contro un dio sconosciuto. E quel classico: “perché proprio a me?“, che tenta di trovare spiegazioni razionali dove mai è possibile trovarne, o quasi mai. Ma la campagna è possente, il paesaggio predomina su tutto, contamina tutto. “Perfino all’ora della siesta, con la casa chiusa e al buio, è impossibile dimenticarsene. Perfino senza aprire gli occhi, perfino quando si dorme, non si smette mai di sentire il cerchio dell’orizzonte. “. In piena estate le cose intorno ardono, mentre un corpo addolorato tenta di trovar un po’ di pace, una possibile tregua mentre intorno la terra si spacca in continue crepe e non concede riparo né è disposta ad offrire alcuna protezione.  Anzi, si impone su tutto il resto e rimane solo il doversi arrendere alle sue irrevocabili disposizioni. Forse questo, a poco a poco, toglie a Falco la forza per rimanere concentrato unicamente su se stesso. La natura richiede attenzione e determinazione, coraggio. A poco a poco, inizia la “cura“, curare la natura diventa anche un curare se stesso, la propria angoscia. Prendersi cura, avere un progetto, scegliere i semi, decidere cosa provare a coltivare, alzarsi presto la mattina in piena campagna in qualsiasi stagione e con qualsiasi tempo, da solo e senza nessun sostegno, a tu per tu con la propria essenza, forza e debolezza. E incapacità. Inadeguatezza. Dedicarsi alla terra, in un dare e ricevere reciproco, inaspettato ma sempre imprevedibile, mai scontato. Concentrare l’attenzione sull’innumerevole varietà della natura, sulle sottili differenze e sulle invisibili presenze. Ad un certo punto del libro Federico Falco scrive: “Un orto non lo si può controllare e questo a volte mi esaspera. L’orto non cresce dal mio desiderio, ma dalla sua stessa potenza, la potenza del seme, e viene fuori in mezzo a incidenti d’ogni tipo“. Ecco qui il segreto, la scoperta finalmente, che oltre se stessi, esiste qualcosa di diverso, che esige attenzione e cura. Riconnettersi con le forze primarie e originarie della vita, tessere fili sottili con la natura, che lentamente sa ripagare, a modo suo e con i suoi tempi. Ma ogni persona o essere animato, in cui soffia e alita  la vita, funziona e si muove secondo le sue proprie regole, e vanno rispettate, anche se non ci piacciono, e vanno al di là della nostra limitata, personalissima comprensione. Lasciarsi andare, rendersi conto che niente si può davvero “controllare“, imparare la diversità. Una rieducazione lenta, dolorosa e molto difficile. Una educazione al “saper accettare“, e in questo la Natura è davvero una impietosa maestra. Ma sa ripagare a volte, con paesaggi suggestivi e pieni di grazia. Un tramonto estivo glorioso, spettacolare dopo una giornata di caldo infernale, per esempio. E quel po’ di fresco mentre nella sera  si cerca il significato di una parola, per esempio quello della parola spagnola “solitude“ o quello della sua parente stretta di lingua inglese  che è “loneliness“, ma che è diversa sia nell’intenzione che nel suono. Il silenzio offre questa possibilità alla mente di potersi concentrare sul significato ultimo delle parole, che tentano di definire la realtà e spesso la rendono vera, viva, reale. La realtà esiste quando la si nomina. Udirle nella notte queste parole mentre cercano chiarezza con i loro suoni appena accennati, in definizioni sempre più precise, appropriate, chiare, nella percezione precisa dell’essere, e degli stati d’essere. Scriveva Clarice Lispector: “L’attimo sono io sempre nell’adesso“. Ridefinirsi attraverso le parole, trovare la propria sostanza, il proprio peso, corpo, dopo una giornata di duro lavoro. Mentre le stagioni si susseguono nel loro ciclo perenne. Ed è come gettarsi, incoscienti, con un tuffo in quel ritmo eterno di fuoco, e poi di tepore, o poi di gelo, ma sempre nell’attesa di una nuova rinascita, mentre tutto intorno palpita di vita, nella danza circolare dei raccolti. I colori si adeguano a queste feste bizzarre e imprevedibili del clima, capace di disegnare cieli tempestosi ma anche cieli leggeri come batuffoli di cotone. Si attende speranzosi il tempo della semina, confidando in un buon raccolto. È un trovarsi finalmente in connessione con tutto quello che ci circonda, e che vive con noi, attorno a noi. Un’esperienza primaria, muta, che viene ed esiste prima di qualsiasi parola, e sfiora la pelle, tocca la vista e l’udito. Questo osservare continuo ha costretto Federico Falco a guardare in profondità, ad accostarsi alle pianure in fiamme, alla terra desolata. “Creare fuochi“, ed in questo caso per lui - scrivere - perché solo una parte di essi, “ una parte minima e imprevedibile, sfolgori nella pupilla dell’altro appena per un istante “. Vedo questa sua costruzione di argilla, fatta giorno dopo giorno con il lavoro delle mani, questo suo mettere una parola dietro l’altra, questo “suo raccontarsi una storia per cercare di trovare pace”. Ed è quello che ognuno di noi tenta di fare ogni giorno, spesso fallendo. Grazie Federico Falco, le pianure sono dentro di me. Contemplo l’argilla da una terra che brucia, la modello con l’aiuto delle parole che disegnano i profili delle cose, parole sempre più sottili, sempre più vicine al silenzio che a volte è commozione, ma che a volte, come adesso, è estrema rabbia. Grazie ancora per questo libro, mi è piaciuto davvero molto.             (STELLA  MARINA)


11  Aprile  2022

IL PICCOLO PRINCIPE 

di Antoine De Saint-Exupéry


Antoine de Saint - Exupèry è stato uno scrittore, aviatore e militare francese. Nacque a Lione il 29 giugno del 1900 e morì il 31 luglio del 1944. Si arruolò nell’aereonautica militare francese durante la seconda guerra mondiale e perse la vita proprio nel corso di una missione ricognitiva sopra la regione fra Grenoble e Annecy, in Francia. Soltanto nel 2004 sono stati ritrovati (?) i resti del suo aereo che, secondo le ricostruzioni storiche, sarebbe stato abbattuto da un caccia tedesco. Ma sulle cause della sua morte e sul mancato ritrovamento del suo corpo, sono nate storie leggendarie e fantastiche, che hanno contribuito a rendere ancor più misteriosa la storia di questo giovane nobile aviatore-scrittore, o meglio, di questo “poeta-aviatore“, che ci ha lasciato alcuni libri bellissimi  e una storia da conservare per sempre, quella de “Il Piccolo Principe“, che è un pò la sua storia. Ma che -senza alcun dubbio- è divenuta anche un po’ la nostra. La scrisse e la pubblicò in America, nel 1943, un anno prima della sua scomparsa. Perché di scomparsa si tratta, e crederlo realmente morto è da creduloni senza speranza. Come da imperdonabili creduloni è considerare questo libro, un libro per bambini. Fatevene una ragione: non lo è. Non lasciatevi ingannare dalla dedica in cui l’autore chiede scusa ai bambini e neppure lasciatevi fuorviare dalle sue illustrazioni. Io da adulta (?) disegno molto peggio di così, o meglio, in modo ancor più infantile. Quindi, se non lo avete ancora letto o se lo avete snobbato per qualsivoglia futile motivo, concedetevi questa breve ma “interminabile“ lettura, vi accompagnerà in ogni vostro volo, su qualsiasi pianeta  desideriate atterrare,  o semplicemente su un minuscolo asteroide dove la cognizione del tempo  muterà e si capovolgerà a vostro piacimento. Concedetevi spettacolari tramonti sull’orlo del tempo, e una rosa delicata per amica, se saprete davvero amarla come “unica“ rosa.

Certo che per poter poi divenire così universale, questo piccolo libro avrà avuto (ed ha!) i suoi sottili segreti, che con instancabile tenacia si sono avvinghiati-legati-stretti inesorabilmente all’animo umano, alla sua misteriosa imperscrutabile essenza. Invisibili segreti che hanno anche permesso al suo scrittore di approdare sulla soglia del tempo, in pieno deserto del Sahara, dove in realtà lui veramente approdò, in seguito ad un’avaria del suo aereo. Ecco che proprio lì, sdraiato sulla sabbia, quasi morto per la sete e in preda a visioni, deve aver ben riflettuto sul significato ultimo della vita, in fondo aveva quell’età generalmente riconosciuta come quella di “nel mezzo del cammin di nostra vita“. …Eccolo dunque precipitare nel deserto del Sahara, tra la vita e la morte, aiutato da indigeni sconosciuti a ritornare alla vita. Ma proprio lì, contro ogni logica, contro ogni legge gravitazionale, astronomica e numerica, fa il suo primo incontro, non ancora libresco, con il piccolo principe, creatura non poi tanto immaginaria quanto piuttosto una proiezione del suo essere infantile, quel bambino che lui stesso un giorno era stato e che ora gli era arrivato in soccorso, come luce abbagliante. E lo ritrova ancora integro, fiero nei suoi sei anni di età, con i capelli color biondo oro e interamente vestito da principe, con quella rosea-rossa sua timidezza dipinta sulle guance. Con la sfida mai sopita di imparare a conoscere il mondo incomprensibile degli adulti, con sempre mille domande a fior di labbra. E con quei pochi disegni mal riusciti (?), quel famoso boa intento a digerire un elefante - per esempio -  ma che in realtà aveva la forma  esatta di un cappello. O almeno gli adulti si limitavano a vederci un cappello, anzi, non erano più capaci di immaginarsi altro se non un cappello (non meravigliatevi poi se Oliver Sacks scrisse quel grandioso libro… ne ricordate il bizzarro titolo?)  E già da qui un piccolo immenso dono di questo nostro piccolo ometto vestito di azzurro: il potere immaginifico dell’infanzia di cui non bisognerebbe mai perdere memoria né traccia. In realtà, scrittore e piccolo principe sono la stessa persona, inutile chiedersi chi abbia disegnato il boa e quando. In quel disegno c’era già segnato il destino del piccolo principe, e il deserto del Sahara non ha fatto altro che rendere favorevole l’incontro. Infatti lo scrittore sarà svegliato all’alba - in quella circostanza di pericolosa avaria - dalla vocina del piccolo principe, tenuta nascosta dentro di sé per tanto tempo, ma che in condizioni di estremo pericolo tornò a farsi sentire , e gli chiese: “Mi disegni, per favore, una pecora “ C’è da dire che  se Antoine de Saint-Exupèry non era stato bravo a disegnare da piccolo, perché mai avrebbe dovuto diventarlo da grande, inutile quasi chiedere proprio a lui il disegno di una pecora, ma il suo indomabile e speranzoso io ci riprovó, sia mai che il passare degli anni avesse fatto miracoli. Perché piuttosto non accontentarsi di essere diventato un ottimo pilota e soprattutto scrittore, che mica è poco eh! Però quella vocina lo incalzò, e lui non ebbe animo di deludere quella “straordinario personcina“, proprio lì, accanto a lui, approdata  in mezzo al deserto,  mentre lo osservava con estrema serietà. Inutile riprovarci con il disegno del “cappello“, il Piccolo Principe (ora sì che possiamo scriverlo con la  lettera maiuscola!), non ci sarebbe mai cascato, sapeva fin troppo bene che nel disegno c’era un boa intento a digerire un elefante, e allora  lo scrittore-aviatore gli disegnò una scatola, il massimo che avesse imparato a disegnare. Ma la pecora, dove era finita la pecora? Quella da cui tutto è nato, da lei nasce la storia e una vera grande interminabile amicizia, e il fantasioso racconto di quella intuizione ricevuta durante l’avaria aereoplanesca. La pecora era finita dentro la scatola, ovviamente. Dove, altrimenti? E “dormiva“, guai a negarlo!

Ma perché al Piccolo Principe serviva il disegno di una pecora, ve lo ricordate - voi - grandi assertori di cappelli? Lì, in pieno deserto, con un aviatore intento a riparare il più velocemente possibile il suo aereo, perché chiedergli proprio il disegno di una pecora?  Perché lui non era un bambino come tutti gli altri, sì, certo, lo era, poteva in effetti sembrarlo, ma solo in parte. Veniva da un asteroide, da un piccolissimo pianeta disperso nello spazio, di cui nessuno aveva memoria e di cui lui era il solo umano abitante.  Aveva però necessità di capire come funzionasse il resto dell’universo-mondo, di capire alcune cose che gli erano incomprensibili, e forse solo quell’aviatore un pò folle, gli sarà sembrato il miglior interlocutore possibile, assai migliore del re, del vanitoso, dell’uomo d’affari e di tutti gli altri che aveva incontrato prima di lui nello spazio. Ma in fondo c’era qualcosa in quell’aviatore che gli ricordava, sì, gli ricordava qualcuno, proprio qualcuno che lui sarebbe potuto diventare, o forse già lo era, o che ancora era. Perché la storia vista dal Piccolo Principe, ribaltandone il narratore, è un magnifico gioco di specchi in cui il tempo simultaneamente accade, annullando distanze ed età. E allora lui diventa un aviatore un pò melanconico che sogna di essere un piccolo principe mentre sogna una rosa su un asteroide dove i tramonti accadono ogni volta lo si desideri. Un aviatore caduto dal cielo, strambo -non perché caduto dal cielo- ma perché caduto proprio sullo stesso pianeta dal quale era partito. Il Piccolo Principe ha invece ancora in sé, e assolutamente integra, la meravigliosa possibilità di compiere enormi distanze, varcare confini immaginifici e inimmaginabili approfittando della migrazione di uccelli selvatici, di volare lontano nello spazio infinito perché “soltanto i bambini sanno quello che cercano“ e possono andare ovunque. Abitante di un pianeta grande non più di una casa, con il solo desiderio di avere una pecora capace finalmente di mangiare tutti gli arbusti e sconfiggere così tutti i baobab, eliminare le cattive erbacce, e ripulire dai semi cattivi il suo piccolo spazio, per proteggere così la “sua“ rosa, che ancora lui non ha imparato  ad amare fino in fondo, gli ci vorrà infatti l’aiuto di una volpe per riuscirci davvero. Ma nonostante l’asteroide B 612 sia esattamente a sua misura e, lì , lui abbia tutto a portata di mano, soffre di solitudine, e di non aver mai incontrato un vero amico o il suo più grande amico - se poi nella vita ti va davvero bene da permetterti questo  incontro (“nasce te ipsum“, dissero - non a caso - prima i greci e  subito dopo i latini ). Per un bambino è molto complicato capire con precisione come funzionano le cose del mondo, e se poi la pecora avesse mangiato anche la sua rosa e le sue poche spine? Quindi soltanto un amico un pò più esperto di lui, avrebbe potuto davvero aiutarlo a capire e a risolvere il suo problema, e a spazzare definitivamente i cattivi semi dal suo giardino. Gli insegnamenti in questo racconto in otto giorni non sono neppure troppo velati, ma a portata di mano, per chi voglia “ricordarsene“. La favola non fa che velarli appena, come è nella sua intrinseca natura, per riportare poi al presente ciò che spesso e troppo facilmente si dimentica. Quindi il Piccolo Principe impara il mondo, impara un sacco di nuove cose, e soprattutto impara ad amare, e lo scrittore impara a ricordare, a trattenere quello che è essenziale e invisibile agli occhi. Non si vede che con il cuore in fondo, non è così? Ne avrà avuto bisogno là, in mezzo al deserto, di memoria il nostro scrittore, e di ricordi, e di capacità immaginifica, assetato e solo e quasi morto. Due solitudini che si sono incontrate nel cuore della medesima persona. Nel cuore della vita e degli anni, “ritrovandosi“ ancora. Nessuno dei due avrà forse mai imparato a disegnare come pretenderebbero gli adulti, ma entrambi avranno sicuramente imparato il significato dell’amore, dell’amicizia e dell’unicità. Guardando il biondo grano illuminato di luce, in una giornata qualsiasi di un qualsiasi anno, l’aviatore-poeta avrà ripensato al suo piccolo amico di cui non ritrovò più il corpo il giorno in cui lui decise di scomparire per tornare sul suo piccolo asteroide, niente di lui era rimasto sul pianeta Terra, se non il ricordo di quegli attimi trascorsi insieme e di quelle domande che ne delinearono l’essenza. Ma niente di lui era scomparso davvero. E niente dell’aviatore era scomparso dal cuore del Piccolo Principe, che ogni giorno, pazientemente, si ricordava del suo amico terrestre un po’ sbadato che si era perfino dimenticato di disegnare la correggia alla museruola per la sua pecora (quella dentro la scatola). Rideva di felicità però il Piccolo Principe, perché sapeva che il suo amico non sarebbe più caduto dal cielo, ma dal cielo lo avrebbe raggiunto presto sul suo piccolo pianeta. Molti sulla Terra lo avrebbero dato per morto, ma i più saggi, quelli che mai saprebbero disegnare un vero cappello, semplicemente per scomparso. E infatti, appena riparato il suo aeroplano, il poeta-aviatore partì…

Di questo libro si è perso ormai il conto del numero di traduzioni e pubblicazioni, si afferma addirittura che sia il libro più tradotto dopo la Bibbia. E in questo universo in continuo divenire, che testimonia già di per sé il valore e l’importanza di questo libricino, si è accesa recentemente una nuova luce, una nuova traduzione in dialetto fatta da un mio carissimo amico. E mi piace pensare che nel cuore del suo paese di origine, piccolo, luminoso e bellissimo, risplenda e risuoni nuovamente la voce del Piccolo Principe. Il dialetto è il leonessano, dal piccolo borgo di Leonessa (Ri), e il mio amico si chiama Galafro Conti. Questo “nuovo“ Piccolo Principe  sta girando per il mondo, aggiungendosi alla schiera degli altri piccoli asteroidi nella loro tenace lotta di amore per la Vita.      (STELLA  MARINA)


11  Marzo  2022

NOI, UMANI               

di Frank Westerman               
   


 “Per questo libro ho attinto a una miriade di fonti “, scrive Frank Westerman a conclusione del suo libro. Westerman è uno scrittore olandese, nato a Emmen nel 1964. Ed è molto bello il ritratto che ne tratteggia Goffredo Fofi, con poche, precise parole: “formidabile scrittore-inchiestatore dall’ostinata passione conoscitiva e dall’inesauribile curiosità “. Per quello che ho potuto riscontrare io - leggendo il libro -, non c’è aggettivo più preciso di quel “ostinata“, per definire la sua passione conoscitiva. La parola ha in sè questa meravigliosa capacità di resistenza oltre ogni possibile limite, va infatti oltre il possibile con la grande forza della volontà ma soprattutto grazie al piacere e all’amore infinito per la Conoscenza. Ha in sè il gusto per la sfida, che è anche provocazione. Mi ricorda molto da vicino Alvaro Mutis e Fabrizio De Andrè: in direzione ostinata e contraria, sempre. Che poi è una scelta di vita, uno sguardo sul mondo che comporta scelte consapevoli. E’ quel sapere e riuscire ad andare oltre, mettendo in conto il rischio. Forse proprio il saper e voler andare oltre è quello che più mi è piaciuto del libro, e lo si avverte sempre, lo si respira in ogni pagina mentre lo scrittore- inchiestatore procede nella sua analisi antropologica sull’uomo, sull’essere umano. Ci sono pochissimi punti fermi, si procede per tentativi, per disvelamenti, per giochi di specchi, contando su una presunta buona fede che non è mai scontata, neppure nel rigore della scienza. Quello in cui si crede oggi, può venir smentito domani, addirittura capovolto.

Il libro ha una data attorno a cui ruota vorticosamente, ed è i 2003, anno in cui sull’isola di Flores, furono ritrovati i resti di un ominide che riaprirono il dibattito sull’origine della nostra specie. Un ominide molto particolare -“l’Homo floresiensis“ -  alto poco più di un metro e con una massa cerebrale molto ridotta. Chi era costui? Come inserirlo negli anelli dell’evoluzione? L’isola indonesiana non è nuova a specie del tutto particolari, come cicogne giganti e elefanti nani, ma anche tartarughe e lucertole enormi, e topi grandi come cani.  Sembra vivere sotto la malìa di un incantesimo, con leggi e specie tutte sue. Quindi qui, più che altrove, valgono quelle parole che Westerman ha detto ai suoi studenti dell’Università di Leida, dove lui insegna: “scrivere un reportage è il frutto della capacità di stupirsi “, “ogni reporter dovrebbe sentirsi come un bambino che si precipita a casa per raccontare alla mamma la cosa straordinaria che gli è appena successa“.

E’ anche con l’aiuto dei suoi studenti che ha scritto questo libro, ognuno ha appuntato sul proprio taccuino note di viaggio lungo la Mesa, e le linee di fondo di un progetto che aveva proprio l’obiettivo di partire fin dall’inizio, ovvero dall’ ”origine“, ruotando intorno a quella data della scoperta dell’uomo floresiensis. Ecco che la frase iniziale virgolettata assume adesso tutto il suo significato e chiarezza, ovvio che le fonti siano infinite, a volte contraddittorie, e sempre in evoluzione. Uno studio appassionante e magnifico, avessi tempo seguirei tutti i libri che lui ha consultato, letto e studiato. Perché cosa c’è per noi di più appassionante del comprendere la nostra origine? E - già che ci siamo - dell‘origine del cosmo?

Ripartiamo dunque da quel 2003 dove , in una grotta, - la grotta di Liang Bua -  è stato trovato lo scheletro  di una donna, doveva essere stata  alta un  metro e quattro centimetri e con la testa piccola come una noce di cocco. A giudicare dalle articolazioni del polso era un primate arboricolo, camminava in posizione eretta, aveva i piedi piatti, e probabilmente era vissuta 18.000 anni fa. Ma risultava difficile da inserire lungo la scala evolutiva questo essere umano in miniatura, questo “scherzo dell’Ente Supremo“. Beh, è proprio questa “devianza“ ad interessare Westerman, questo andare ostinatamente verso una direzione “ eccentrica “ con i suoi soli venticinque chili di peso, ma con la volontà di prendersi beffa di Charles Darwin e di Alfred Russel Wallace. E ovviamente lei non era il solo esemplare ritrovato, non l’eccezione in quella grotta a Flores. Era proprio una specie a sé quella degli abitanti dell’isola. “ Perché noi dunque ci consideriamo la norma “, e tutto il resto “la devianza“?

La collezione Dubois, è il più grande bottino di fossili coloniali dell’Olanda, arrivato via nave nell’Ottocento dall’isola di Giava. Circa quarantamila tra reperti ossei, denti, conchiglie, esposti presso il Museo Naturalis di Leida. Tra questi reperti c’è anche il famoso “uomo scimmia“ di Giava, e sono i primi resti ritrovati al mondo - 1891 - del nostro predecessore: l’Homo erectus. Da dove veniamo? Chi siamo noi? Cosa ci rende geneticamente umani? si chiede lo scrittore. “La nostra specie è l’unica a disporre del potere distruttivo di cancellare la vita sulla terra, schiacciando il bottone nucleare“, scrive ad un certo punto Westerman. E adesso, in questi giorni, soffermandomi nuovamente su  questa frase, davvero non posso non piangere, senza riuscire più a  smettere . La storia non insegna niente, l’uomo è sempre animato dalla sete distruttiva di conquista e di potere. Davvero ci meritavamo - mi chiedo adesso - di distinguerci dal resto del mondo animale? Purtroppo, con quello che sta accadendo, non riesco più ad avere la fiducia che sembra nutrire Westerman  verso la nostra specie, nelle sue indubbie capacità , e forse lui stesso adesso scriverebbe un libro diverso, o con un finale diverso, con questa tragica, palpabile consapevolezza della fine.

“Non siamo che ossa sparse. Ma sono le tue ossa. Tu devi decidere il valore di quelle ossa.“

Questa breve frase, in esergo alla tesi di laurea di un famoso paleoantropologo indonesiano, Teuku Jacob, ci ricorda che la storia della paleoantropologia è stata anche una storia di colonizzazione, di sottomissione e di prevaricazioni. La storia dell’uomo florensiensis scorre parallelamente a questa amara certezza , e lo scrittore si sofferma su questi bui e oscuri passaggi della storia, consentendoci qualche deviazione chiarificatrice, sempre illuminante sulla natura umana. Secondo Jacob, l’uomo di “Flo“, è stata semplicemente “ un’invenzione di ciarlatani che si spacciavano  per scienziati. Ma questa affermazione, non ferma, nè placa, la curiosità di Westerman, anzi, la alimenta.

Così, anche noi ci domandiamo, seguendo il flusso dei suoi pensieri, “che cosa è normale e cosa non lo è“. L’uomo di Flo è il famoso anello mancante, una variante nana dell’homo erectus, o piuttosto la conferma che più cose si scoprono, meno se ne sa ? Affascinato dal pensiero del professor Eugène Dubois che lavorò per trovare l’anello mancante tra uomo e scimmia, per riuscire a dimostrare che il principio evolutivo non vale solo per gli animali, ma anche per l’uomo.  E che le Indie olandesi erano state la culla del genere umano. Triste poi scoprire che quel suo “essere sulla soglia dell’ominazione“, che lui pensò di aver finalmente trovato  con il suo uomo-scimmia, il possibile anello mancante, non venne poi ufficialmente riconosciuto dalla scienza.

Si trovano in fondo sempre uomini, caratteri, temperamenti e umori, invidie e gelosie anche nella storia affascinante e mai lineare della paleoantropologia. E continui balzi avanti e indietro lungo la tortuosa catena dell’evoluzione. Ma quando, con precisione, l’uomo ha fatto davvero il suo vero grande balzo, “il grande balzo in avanti“, verso l’Homo Sapiens, rotolando , e aggiungerei io “inopportunatamente“,   fuori dalla natura? Il genetista Theodosij Dobzsnskij, nel 1961 scrisse” l’essere umano è il prodotto più riuscito dell’evoluzione in base a qualsiasi ragionevole definizione di successo biologico “. Quel grande balzo è iniziato tra i cinquantamila e i quarantamila anni fa . E davvero, nonostante la sorprendente meraviglia di quel balzo, in questo momento non riesco a gioirne. Tutto quello che quel balzo significò, fa di me quella che oggi sono e posso essere. E quello che affascina Westerman, e affascinava anche me fino a pochi giorni fa, mi lascia oggi assolutamente indifferente. Anzi, mi rattrista infinitamente. “Il fatto che siamo altrettanto bravi a costruire come a distruggere mi affascina“, scrive Westerman.“ A ogni costruzione segue una devastazione, a ogni devastazione un’insindacabile ricostruzione. In ogni caso, continuare a distruggere ci tiene in moto, come criceti sulla ruota. “. Io adesso invece, potessi, mi fosse concesso, rifarei quel balzo all’indietro, pur di non essere quel criceto sulla ruota. Preferirei essere quella donna di appena venticinque chili, “ Flo “, appena nata alla posizione eretta, fiera di poter vedere finalmente  il mondo dall’alto, e felice di sentirsi scaldare da un tiepido raggio di sole. In quel mondo capovolto di quella splendida isola indonesiana, dove sicuramente starei meglio, abbracciata ad una tartaruga gigante, che è molto ma molto meglio di un criceto, non vi pare? Oppure, vorrei che il Piccolo Principe scendesse nuovamente e finalmente domandasse proprio a me: “Allora anche tu vieni dal cielo! Di quale pianeta sei?“

Il libro è davvero molto bello, e Westerman un grandissimo scrittore. Continuerò a leggerlo perché mi piace infinitamente la sua ostinata passione. Non c’è altro che mi piaccia di più: cercare di conoscere, ostinatamente. E questo suo altro titolo “I soldati delle parole“, sembra chiamarmi…           (STELLA MARINA)

11  Febbraio  2022

Smarrimento                  

di Richard Powers

Ci sono due domande centrali e fondamentali nel libro dello scrittore indiano Amitav Ghosh “La grande cecità“, domande alle quali dovremmo assolutamente imparare a rispondere, se non come scrittori, almeno come lettori.

“…che cosa nel cambiamento climatico fa sì che il solo menzionarlo comporti l’esclusione dai ranghi della letteratura seria? E questo che cosa ci dice della cultura nel suo insieme e delle modalità con cui elude il problema?“

Lascio - almeno per il momento - queste domande senza risposta. In realtà, il mio procedere in letteratura da un pò di tempo sta cercando possibili direzioni per tentare di chiarirmi cosa si intenda in questo preciso momento storico per letteratura, cosa comprenda, o cosa dovrebbe comprendere o escludere, nel caso qualcosa debba ora escludere. Le risposte che prova a dare Ghosh sono assolutamente esaustive e condivisibili, tanto che io considero - il suo -, un libro di importanza fondamentale, da far leggere nelle scuole superiori, un libro su cui aprire discussioni e far riflettere le nuove generazioni, che magari saranno molto migliori di noi, sia come lettori sia come abitanti di questo pianeta in estrema sofferenza. “La grande cecità“, è stato scritto nel 2016, ed in questo breve arco di tempo, le cose sono un pò cambiate, come afferma Ghosh “l’era del surriscaldamento globale sfida sia l’immaginazione letteraria sia il buonsenso contemporaneo“. Alcuni scrittori hanno infatti raccolto la sfida, e riammesso nel contesto letterario “il perturbante“, che non è qualcosa di legato al sovrannaturale come lo si intendeva un tempo e di cui si narrava, ma piuttosto  è qualcosa che si riferisce a tutto l’ambiente che ci circonda, e soprattutto al cambiamento climatico innescato principalmente da azioni meramente umane. In questa direzione già da diverso tempo sta andando la scrittura di Richard Powers, uno dei miei scrittori preferiti, insieme a Don DeLillo, e Cormac McCarthy. Dopo aver letto “Il sussurro del mondo“, confesso che avevo un pò di timore a leggere questo: era stata una lettura così intensa, così magnifica, perfetta, che ho temuto di restar delusa da “Smarrimento“. Eppure, non dovrei neppure più meravigliarmi, vista la serietà con la quale l’autore affronta ogni suo libro, la documentazione esatta e precisa, lo studio costante. “Bewilderment“ è  il titolo in lingua originale, e la  sua traduzione italiana “Smarrimento“ ci porta direttamente nel cuore del problema, non saprei davvero trovare  definizione migliore per  tentare di descrivere questa nostra umana condizione in questo preciso momento storico : Smarrimento. Condizione che Richard Powers ha cercato di risolvere trasferendosi nelle Great Smoky Mountains, nel Tennessee. In una recente intervista ha raccontato: “Ora nel mio cortile ho mezzo milione di acri di natura selvaggia, con un numero di specie di alberi maggiore rispetto a quelli presenti in tutta Europa, dal Portogallo agli Stati Baltici. Posso camminare ore e ore e non incontrare mai un altro mammifero bipede. Credo sia l’evoluzione più felice dei miei 34 anni di carriera di scrittore. “Condivido la sua scelta e, se potessi permettermelo, seguirei subito il suo esempio.

La prima frase che mi ha colpito in questo romanzo, che ne rappresenta anche il centro vitale e propulsore, è stata questa:

“Assistendo all’insuccesso della medicina con mio figlio, sviluppai una teoria sballata: la vita è una cosa che dobbiamo smettere di correggere. Il mio fanciullo era un universo tascabile che non avrei mai potuto sperare di riuscire a capire. Tutti noi siamo un esperimento, e non sappiamo nemmeno cosa l’esperimento stia esaminando.“

Theodore Byrne, voce narrante e padre di questo “triste e strano bambino“ di nove anni, è un astrobiologo, cerca e studia le possibilità di vita su altri pianeti, il cosmo è la sua passione più grande, ovviamente dopo il proprio figlio che tenta in ogni modo di rendere felice. La moglie - Alyssa - è morta da due anni in un incidente stradale, ed era un avvocato ma soprattutto un’attivista ambientale molto convinta. Robin, il loro figlio, ha seri problemi comportamentali, forse affetto da Sindrome di Asperger, o qualcosa di simile, molto complicato per lui instaurare relazioni con i propri compagni di scuola, ma difficile quasi ogni tipo di relazione. Ama disegnare macchinari, edifici, ma soprattutto animali, in ogni minimo dettaglio, e soprattutto quelli scomparsi o in via di estinzione. Ha una memoria portentosa, ma solo per quello che davvero lo interessa, solo una cura farmacologica potrebbe essere di qualche aiuto, ma il padre si rifiuta categoricamente, e si assume un carico di responsabilità enorme, perché il figlio è spesso ingestibile e sempre imprevedibile nelle sue reazioni. Li unisce la passione per il cosmo, per l’invenzione di possibili mondi oltre il nostro che riempiono le loro serate insieme, i racconti minuziosi e bellissimi del padre su diverse forme di vita che potrebbero esistere e manifestarsi su altri pianeti, ma li unisce soprattutto  l’amore sconfinato  per la natura, che era anche la grande passione di Alyssa. Lei amava così tanto i pettirossi che la scelta per il nome del figlio fu ovvia conseguenza: “Robin“, un pò fanciullo, un po’ un essere completamente libero  da qualsiasi schema in cui incasellarlo  e contenerlo, come questo piccolissimo esemplare di uccello, dal piumaggio spesso marrone o rosso-arancione  e dal candido bianco ventre. Gli assomiglia Robin a questo piccolo volatile, coraggioso e aggressivo quando necessario, ossessionato dalla verità, a disagio in un mondo sull’orlo del collasso o, in verità, già da tempo collassato. Una purezza di intenti e di visioni di vita che mal si conciliano con un mondo allo sbaraglio, dove l’ordine di ogni cosa è stato sovvertito. Il suo animale preferito è il nudibranchio, e sul suo taccuino annota tutte le specie che lo incuriosiscono per poi studiarle approfonditamente. Ma è un bambino che non riesce a creare e sostenere legami, non riesce a mantenere la calma, ha reazioni spropositate, non sa contenere la rabbia, niente sembra poterlo davvero aiutare per riuscire a farlo star meglio. Finalmente sembra aprirsi una possibilità con una terapia sperimentale, ideata da un neuroscienziato, conoscente del padre, una terapia rivoluzionaria, grazie alla quale Robin riesce ad entrare in contatto con i pensieri, con l’emotività della madre, la cui mente era già stata sottoposta a questa terapia di neurofeedback decodificato e ne era rimasta traccia. A lui non resta  che  riuscire a ricalcare , rintracciare, gli stati emotivi della mamma, avvicinare i suoi pensieri,  per trovare così  il modo di poter controllare le sue emozioni, e questo gli consentirebbe anche di colmare  l’assenza imparando  a gestire quell’immenso dolore che prova e in cui costantemente è immerso. Erediterà “attraverso“ lei, anche l’amore sconfinato per l’ambiente, di cui si farà attivo e convinto portavoce. La sentirà vivere e pensare in lui. Sembra finalmente esserci una tregua, la possibilità di una vita più “normale“, grazie al contatto costante e protettivo  con la memoria emotiva di Alyssa, che riuscirà ad avvicinare  con l’ esercizio costante della concentrazione, un training quotidiano di ricerca e avvicinamento. Diventerà anche lui un attivista convinto, come Greta Thunberg, il cui riferimento non è poi così sotto traccia nel libro. Ma durerà questa tregua per lui? Oppure il sistema è ormai talmente compromesso che i finanziamenti per cure sperimentali non potranno più rientrare nelle priorità governative? La fotografia del nostro mondo e di quello americano, del qui e adesso, che fa Powers è giustamente impietosa. Non ci sono vie di fuga, nonostante la narrazione, nonostante sia un romanzo e non un saggio, e del romanzo conservi le fondamentali caratteristiche. Ma si impegna a rispondere alle domande di Ghosh, non elude le risposte, se ne fa carico. Le mette sotto il nostro sguardo, perché da solo certamente non può rispondere. “Tutti siamo dentro ognuno“, lui dice. E tutto è collegato. In questo nostro assoluto smarrimento ci potrebbe essere anche la soluzione, se solo si comprendessero davvero quelle due, tre cose fondamentali del vivere, del vivere insieme su un pianeta, un pianeta “che secondo qualunque stima non sarebbe mai dovuto esistere“. Se soltanto si capissero quelle due, tre cose.  

“Cosa credi sia più grande? Lo spazio cosmico…? “Accostò le dita al mio cranio. “O quello interiore?“ “Quello interiore,“ dissi. “Indubbiamente quello interiore.“                (STELLA  MARINA)


11  Gennaio  2022

Le invenzioni della notte    

di Thomas Glavinic




Vivere: nel vivere non c’è alcuna felicità.  Vivere: portare il proprio io dolente per il mondo. Ma essere: essere è la felicità. Essere: trasformarsi in una fontana, in una vasca di pietra, nella quale l’universo cade come una tiepida pioggia.

Queste le prime parole in esergo al libro. Me le ricordavo avendole già lette nel libro di Milan Kundera “L’immortalità“. Ci sono rimasta ferma un bel pò per poterle ripensare, per appropriarmene di nuovo perché sono splendide, prima di iniziare la lettura del romanzo di questo scrittore tedesco che non conoscevo, romanzo che ha ricevuto numerosi consensi di pubblico e di critica in Germania, ma generalmente questo a me non basta per convincermi a leggere un libro. Deve scattare qualcosa, qualcosa di simile ad un innamoramento. La copertina è bella, trapela una leggera inquietudine da quel giovane uomo solo nella notte, che sembra osservare un punto non definito di una città. Forse è su una spiaggia, davanti a lui una passerella in legno, e intorno, impronte di scarpe. Forse invece è davanti al mare, con cabine di grosse navi illuminate. Quello che colpisce è lo sguardo, o l’intuizione di uno sguardo perché è ripreso di profilo, le spalle, che sono lievemente incurvate, e il senso di impotenza che sembra pervaderlo. Attratto da qualcosa più grande di lui che non riesce a decifrare, una paura sottile lo attraversa e lo mantiene immobile, come in attesa. A volte le copertine possono aiutare, ma, certo, non basta. Questa volta mi è venuto in aiuto anche il titolo, e quel plurale “le invenzioni“, molto più interessante che se fosse stato “l’invenzione“, che  mi avrebbe riportato ad un libro bellissimo di Paul Auster e a quella sua frase “ Un giorno c’è la vita… poi, improvvisamente, capita la morte, frase che ha scritto ne “L’invenzione della solitudine“. Eppure questa frase non è poi così distante dall’anima di questo libro, da quella sua voce notturna che cerca di sondare fino in fondo, senza concedersi respiro, il silenzio assordante, abissale, della solitudine. Un uomo, di circa trentacinque anni, di nome Jonas, una mattina si sveglia nel suo appartamento di Vienna, e come ogni giorno, si prepara la colazione prima di uscire per andare al lavoro. Ma ben presto scoprirà che quella non è una mattina come tutte le altre. Nonostante tutto appaia come sempre, non c’è più un’anima in giro. Non tarderà molto a rendersi conto che è rimasto completamente da solo, in quel 4 luglio pieno di sole, mentre tutto il resto dell’umanità, compresi gli animali, sono scomparsi, ingoiati dal nulla, senza nessuna spiegazione e senza nessuna traccia, o indizio. Gli oggetti intorno a lui, più o meno, continuano invece a funzionare, ma come direbbe Paul Auster, “le cose di per sé sono inerti: assumono significato solo in funzione della vita che ne fa uso“.

Come si reagirebbe davvero davanti a questa improvvisa e impensabile, inimmaginabile realtà, quella di rimanere soli nel mondo, su questo nostro pianeta? Di poter improvvisamente poter disporre di qualsiasi cosa ancora esistente e funzionante, di ogni oggetto, senza però avere la possibilità di incontrare mai più nessuno di vivo e di reale. Senza nessuno a cui affidare i propri ricordi, la propria vita. La trama del libro è interessante quanto inquietante, ed è quello che vuole essere: un inquietante incubo senza via di uscita. Ecco che i motivi di lettura si son resi ben presto palesi ed invitanti con questa trama, ed io, risucchiata dal vortice di questo lungo, quasi interminabile delirio, ho deciso volutamente, nel pieno delle mie capacità di intendere e di volere, di affiancare l’autore in questa discesa nel suo incubo più feroce, che deve averlo svegliato di notte, prima di poterlo scrivere. Forse un sogno, divenuto materia letteraria, senza liberarsi però mai completamente di quello stato ansiogeno di cui si deve esser nutrito, sognando. Perché cosa davvero saremmo noi, se privati degli altri? Che significato avrebbe vivere su questo pianeta in totale solitudine? Si cercherebbe probabilmente il nostro doppio per tenerci compagnia affinché ci riveli qualcosa di più profondo di noi stessi, come fa in realtà Jonas, videoregistrandosi mentre dorme, e incontrando il “Dormiente“, l’altro essere che lo abita e di cui sa davvero poco. Si proverebbe paura per ogni cosa, per il più piccolo rumore del più banale oggetto. Si percorrerebbero chilometri per tentare di trovare qualcuno che ci somigli, tracce di un passato comune. Si ricorrerebbe all’infanzia, alla disposizione di certi mobili di famiglia, alle fotografie. Si ricorderebbe l’amore. Si camminerebbe per le strade deserte con un coltello o armati, per non essere aggrediti dagli oggetti, per non essere sorpresi dal loro rumore di fondo, inquietante e inspiegabile. Eppure apparentemente nel racconto niente si muove, niente cambia, solo il tempo continua a scorrere in quella sua alternanza giorno-notte, assieme alle stagioni. Ma per chi è rimasto da solo come il protagonista, anche la percezione del tempo è destinata a mutare, sonno veglia sono destinati a interconnettersi di continuo. Jonas è capace di ascoltare soltanto i suoi passi nell’assordante silenzio di città vuote, di un’Europa deserta e minacciosa, da depredare, per trovare ancora un po’ di cibo non scaduto, qualcosa da bere, e macchine con ancora benzina per spostarsi in quel suo viaggio interminabile  e senza speranza verso un possibile “altro“ che non esiste più, che è scomparso  per sempre insieme al significato del mondo. Si ode solo la sua voce che chiama, cerca, urla, si dispera. Il clacson della sua macchina che suona solo per abitudine e per paura, paura che a volte è terrore, quasi follia. Lascia   indizi, messaggi, il numero del suo cellulare un po’ ovunque, per essere trovato. Intercettato. Ma da chi, se il mondo è ormai completamente svuotato di esseri viventi? Solo gli oggetti, le costruzioni gigantesche di palazzi e chiese, la ruota panoramica di Vienna. Le macchine, i computer, le televisioni, i negozi, i supermercati…Eppure in Jonas cresce sempre di più quella sensazione orribile di non essere davvero da solo, di poter essere sorpreso all’improvviso da qualcuno, essere aggredito: “aveva la sensazione che ci fosse qualcuno, allo stesso tempo sapeva che non c’era nessuno. Ed era torturato dal pensiero che fossero vere entrambe le cose. “In ogni pagina c’è questa paura, che cresce sempre di più, che divora il protagonista, e sarebbe sicuramente la paura di ognuno di noi ritrovandosi improvvisamente nella sua stessa situazione. La paura atavica, primordiale, di un animale in pericolo, sempre minacciato da qualcuno o da qualcosa, sempre sul baratro della morte, del nulla. Difficile da immaginare, non c’è niente di bello né di attraente in questa ipotesi. Davvero niente. Senza gli altri, solo il vuoto. La disperazione totale e assoluta. Tutto quello che resta è un incubo, i propri demoni interiori, le proprie angosce, le solite domande che non avranno mai risposta.

Cosa siamo noi? Cosa siamo noi senza gli altri? Cosa ci definisce? Cosa è la realtà? Esiste una realtà al di fuori di noi? E quanto è reale la realtà?  I ricordi, a chi servono davvero i ricordi? Cosa sono i ricordi? Si rimane invischiati in questa trama ansiogena, perché noi siamo i soli testimoni attendibili del suo racconto, ci ha eletto suoi testimoni, confidenti, sfidandoci a rispondere. Mentre tutto il resto intorno a lui è crollato, sparito. Sono rimaste solo statue che si sporgono ovunque dalle facciate dei monumenti o di palazzi, crescendo sempre più di numero. Statue mute, un esercito di musici, nani, maschere e santi. E lui, da solo, sul limitare di una soglia, tra sogno e veglia, tra vita e morte. Tra invenzione e realtà.

Il libro è bello. Però ritengo che meritasse un editing molto più accurato e attento. La tensione, a volte, si perde, ci si annoia un po’ - e questo non deve mai succedere in un libro - doveva invece essere tirata fino al suo estremo limite, esasperata, non darci mai modo di pensare o di dubitare. Di riflettere. Non doveva mai concederci un attimo di tregua, per poi lasciarci atterrare, esausti, sull’ultima pagina, bellissima! Invece la noia, eh no. Quella mai…!                (STELLA   MARINA)







11  Dicembre 2021

L’ANIMA DELLA CITTA’

di Jan Brokken

Ogni  volta che esce un libro di Jan Brokken, io sono felice. Perché già so che non mi deluderà. Tra noi esiste un patto di reciproca fiducia, sancito fin dai tempi dalla lettura di “Anime Baltiche“, libro che da noi uscì nel 2014, sempre per la casa editrice Iperborea. Fin dalla prima pagina vi si respira aria di mare, andando incontro a favolosi paesi sconosciuti, sentiti nominare a scuola e ripetuti quasi meccanicamente ogni volta che venivo interrogata; Estonia, Lettonia e Lituania. Ma con lui questi paesi hanno preso finalmente consistenza, si sono animati di vita e di personaggi, ho imparato a guardarli con i suoi occhi, ripromettendomi di visitarli appena possibile. Perché viaggiare, come asserisce ogni volta Jan Brokken, “ insieme a leggere e ascoltare, è sempre la via più utile e più breve per arrivare a se stessi “. La bellezza del mar Baltico, la luce morbida e calda che in autunno infiamma i colori, mi farebbero desiderare di essere proprio lì, adesso, mentre scrivo, mentre con la memoria riattraverso due libri dello stesso autore, uniti da reciproci richiami, e da quella curiosità vitale che ne anima ogni pagina. Forse “ Anime Baltiche “ è stato il libro che ho amato di più, anche se “ L’anima della città “, ne è un pò il seguito, un concentrarsi su alcune delle città che lui ha toccato viaggiando, fermandosi su alcuni aspetti e persone che lo hanno colpito, che hanno catturato la sua attenzione e , spesso, anche  il suo amore. Questo libro inizia con Amsterdam, città che conosco e ho vissuto per brevi periodi. Ma questa Amsterdam, non è quella che io ricordo, ma è quella che ha vissuto Mahler. E non è fatta di paesaggi, lungo-canali, porti, colori di palazzi, vetrate, caffè. E’ fatta di suoni, dei ritratti di Rembrandt che lui molto amò e che cercò di imprimere nella sua musica, in due movimenti della Settima sinfonia. Parallelamente al libro di Brokken e alla musica di Mahler, scorre il mio viaggio di lettrice, che mi ricongiunge invece alla quinta sinfonia, a quell’Adagietto ripreso anche da Luchino Visconti ne “La morte a Venezia“, e che mi fa pensare alla scrittura di Thomas Mann. Certi libri hanno questa capacità, di farti compiere giri pazzeschi, di portarti in un istante in una parte di te che credevi dimenticata, nel vivo di un ricordo, di un dettaglio, di un suono. Sono libri in cui si viaggia contemporaneamente in più direzioni, ci si ferma per soste lunghissime, prendendoci tutto il tempo necessario per osservare ancora una volta la luce dei dipinti di Rembrandt, l’uso che ne ha fatto per caratterizzare i suoi personaggi. Ci si siede, ci si mette comodi, con un quaderno, per cercare di appuntare tutto quello che “succede“ mentre si legge. Non siamo dentro un romanzo, dentro una struttura che in qualche modo ci obbliga a seguire un percorso, qui siamo liberi di muoverci a nostro piacimento, come dei veri flâneur. Si sosta, si pensa, si immagina, si ricongiungono fili della nostra vita, si ascolta musica, si può bere un caffè, un tè, o un buon bicchiere di vino rosso. Si può ripartire dal libro, oppure rileggere l’incipit della morte a Venezia, e ritrovarsi in un pomeriggio di primavera di quel 19…, a Monaco. Oppure cercare di mettere a fuoco la personalità di Willem Mengelberg, direttore dell’orchestra del Concertgebouw, con cui Mahler lavorò per anni. Quell’uomo che assisteva a tutte le prove in prima fila, o seminascosto talvolta, senza mai stancarsi, sempre pronto a cogliere ogni piccola variazione del maestro, tanto che i due non divennero soltanto amici - e non era semplice divenire un amico di Mahler - ma ne divenne la “cassa di risonanza“. Si può continuare il viaggio, volendo, nella Bologna di Morandi, quell’artista che in tutta la sua esistenza visitò in tutto sei città, e naturalmente, solo italiane; Firenze, Venezia, Padova, Milano, Roma, oltre a Bologna, ovviamente. Qui si potrebbe aprire una parentesi personale lunghissima, non soltanto perché Firenze è la mia città natale, e Roma la mia città adottiva, ma perché ognuna di queste città per me è di vitale importanza. Allontanarmi dal libro in questo caso mi porterebbe troppo lontano, a quel fascio di luce che un pomeriggio illuminò Santa Croce, e che io seguii un pò intimorita da tanta- troppa bellezza, e che mi ricongiunse definitivamente e per sempre, all’anima della mia città, al suo splendore dolente e magnifico. Anche Morandi amò, dopo Bologna, Firenze. Fu colpito da Giotto, Masaccio, Piero della Francesca, Paolo Uccello, ma era troppo per lui, continuava a preferirle la città dai tetti tutti uguali, con quelle migliaia di tegole di terracotta rosso scuro, che anche io ho amato, e amo, moltissimo e intimamente. Per Morandi Bologna era la città-riparo, poteva “percorrere venti strade senza uscire dall’ombra nemmeno per un minuto“, non avrebbe potuto vivere in nessun altra città, neppure per lavoro. “Morandi era un uomo schivo in un corpo gigante“. Visse come un eremita, “ma fu fotografato quanto una stella del cinema“. Non si sposò mai, continuò a vivere con le sorelle, si fece costruire una casa a Grizzana, per le vacanze estive. “Prese un foglio di carta, disegnò una casetta con il tetto spiovente, quattro finestre e una porta sulla facciata. Era così che voleva vivere: nella tipica abitazione delle semplici famiglie contadine dell’Emilia Romagna. “Non sempre ci riuscì, tra il giugno 1943 e il settembre 1945 ci furono novantaquattro attacchi aerei che distrussero una buona parte del centro storico, e anche la sua casa di campagna subì notevoli danni. Lui ambiva alla tranquillità, dipingeva sempre gli stessi vasi, bottiglie, ciotole, con i suoi tenui colori. Non permetteva alle sorelle di spolverare gli oggetti, “la polvere rende opachi gli oggetti“, con i suoi colori tenui “cercava una connessione con le nature morte di Chardin o gli interni di Vermeer. Allontanarsi da Morandi e il suo mondo mi è costata molta fatica, ma la curiosità per la città di Vilnius, capitale della Lituania, mi ha convinto a voltar pagina, o quantomeno, a provarci. Nevica appena si arriva a Vilnius, mentre la campana di una chiesa suona, perché è quasi Natale. Ci viene incontro Mikalojus Konstantinas Čiurlionis, (1875-1911), musicista e pittore, e noi siamo davvero molto curiosi di conoscerlo. Ce ne parla il pronipote, mentre ci soffermiamo a guardare alcune vecchie fotografie che lo ritraggono con la moglie Sofija. Sono bellissime queste foto  in bianco e nero, ritraggono una coppia innamorata della quale vorremmo sapere tutto, mentre lasciamo scorrere la sua musica fatta di opere dalla durata di poco più di tre minuti, e ci rendiamo conto di quanto forte sia stata su di lui  l’influenza di Chopin, e quanto difficile, liberarsene. Ma un’altra città ci attende , è Aizpute, una cittadina lettone in qui  nacque,  il 16 aprile del 1946, in una famiglia di musicisti, Peteris Vasks. “Come lodare la forza più potente del globo, l’amore? Mit leiser Stimme,“, si rispose il musicista.”Sottovoce“.  Questa risposta mi piace davvero tanto: “sottovoce“! Vasks dovette attendere la perestroika per veder pubblicate le sue prime opere. La sua musica non ha mai finali fragorosi, “i passaggi veloci rimandano agli aspetti aggressivi, oscuri, bruti dell’umanità, gli ideali hanno un suono lento e sommesso. “Vorrei sostare ancora un pò qui, conoscerlo meglio questo compositore, aprire parentesi, dialoghi, riflessioni, ma c’e una città subito dopo che mi attrae moltissimo, ed è Arcachon. In particolare c’è una fotografia che ritrae il musicista francese Claude Debussy con la figlia Chouchou che mi affascina e che desidererei osservare in ogni minimo dettaglio,  lui che amava molto Arcachon e la cruda bellezza dell’oceano Atlantico. La musica di Debussy mi travolge sempre, davvero sarei tentata di fermarmi qui e non muovermi mai più, tenendo ben a mente quelle parole che lui scrisse in una lettera a Paul Dukas : “I Believe with all my heart that music remains for all time the finest means of expression we have.“ Niente è più grande e potente della musica, arriva ovunque, a volte anche dove non dovrebbe o dove non vorremmo che mai arrivasse. Eppure lo fa, e lo fa, spudoratamente. Intanto ascolto l’interpretazione di Arturo Benedetti Michelangeli, prima di passare a Bergamo, città che Stendhal definì “il più bel luogo della terra e il più affascinante mai visto“. Bergamo è la città natale di Gaetano Donizetti, vi nacque il 29 novembre 1797, nella stretta via Borgo Canala, la stretta via che porta verso la città bassa. Attualmente c’è un piccolo museo. Molto intenso e struggente il ritratto che ne dipinge Jan Brokken. Così come intenso è il ritratto di Cagliari, e di quelle prime parole che imparò a pronunciare in latino Italo Calvino: “Hortus botanicus“, Orto che distava dalla caso materna poco più di due chilometri. Ne segue un ritratto bellissimo di Eva Mameli Calvino, madre di Italo, e la sua passione per i misteri della natura che riuscì a trasmettere ai suoi due figli. Ci sono subito dopo la Dusseldorf di Joseph Beuys,la Parigi di Erik Satie e del Bateau- Lavoir, “il laboratorio centrale della pittura“. Fermarmi qui mi piacerebbe moltissimo, insieme a Max Jacob, Amedeo Modigliani, Paco Durrio, Juan Gris, Kees van Donne, Pablo Picasso. Satie adorava vivere a Montmartre. Per la copertina della partitura del balletto“ Uspud, chiese un ‘illustrazione a Suzanne Valadon. Poco tempo dopo, già scrisse:“il 14 del mese di gennaio dell’anno di grazia 1893, che era un sabato, iniziò la mia relazione d’amore con Suzanne Valadon che ebbe termine il martedì 20 del mese di giugno dello stesso anno“. E se non ci fosse  subito un diretto, una coincidenza, per Kyoto, rimarrei qui, nella meravigliosa Parigi, cercando magari Julio Cortàzar e la maga. Ma a Kyoto c’è l’incontro con Ryoko, una donna forse amata da Jan Brokken. E subito dopo, nuovamente Amsterdam, per ammirare la pittura di Meindert Hobbema, per poi proseguire per San Pietroburgo, ultima città estera che ho visitato prima che la pandemia ci chiudesse in casa, ed è una città stupefacente, con un’infinità di suggestioni.  Ma davvero io non riesco ancora a staccarmi da quelle pagine dedicate alla madre di Italo Calvino, il mio procedere è in realtà un sostare, adesso ho bisogno di questo, di questa lunga pausa dentro il cuore di questo libro. Ho bisogno di rileggermi qualche capitolo di Marcovaldo, aprire a caso il libro de “Le città invisibili “, e farmi trasportare dalle sue città sottili. “È l’umore di chi la guarda che dà alla città di Zemrude la sua forma. Se ci passi fischiettando, a naso librato dietro al fischio, la conoscerai di sotto in su:davanzali, tende che sventolano, zampilli. Se ci cammini col mento sul petto, con le unghie ficcate nelle palme, i tuoi sguardi s’impiglieranno raso terra…! Non posso muovermi da qui, Brokken sarà molto felice di queste mie divagazioni, approverà queste soste dentro il suo libro che adesso è il mio. Viaggio con i miei occhi insieme ai suoi.                                        (STELLA  MARINA)

11  Novembre  2021

Giorni di collera 

e di annientamento    
           
di Francesco Permunian


In copertina del libro di Francesco Permunian c’è un dipinto, un autoritratto del pittore tedesco Otto Dix, che risale al 1912 quando l’artista aveva appena ventitré anni. Già lo sguardo è severo, attento, accusatorio. Sembra osservare la realtà con grande serietà, con glaciale oggettività che sfocerà presto in quei suoi quadri di denuncia sociale contro la guerra. Morì nel 1969 e a quell’età Francesco Permunan aveva diciotto anni. Non so se si siano mai conosciuti di persona - ritengo di no - ma con quel garofano rosa comunque il pittore sembra voler consegnare al nostro italico scrittore un messaggio, un modo di osservare e ritrarre la “miseranda commedia umana“, con severità e indulgenza. Già nella mitologia ai garofani era attribuita una funzione consolatoria, nacquero dalle lacrime di quel misero pastore che si invaghì di Diana, dea della caccia, e fu da lei sedotto e subito dopo abbandonato. Cadendo a terra quelle sue copiose lacrime generarono garofani, capaci in parte di curare le pene d’amore e di lenire quei giorni di “collera e di annientamento “che la vita inevitabilmente ci presenta nel suo accadere. Il titolo del libro, però, non lo si deve a questa considerazione, quanto ad una breve frase di Anna Maria Ortese, che intervistata da Sandra Petrignani, questo disse: “Ho conosciuto giorni di collera, e insieme di annientamento. Una brutta vita, direi“. 

Non conoscevo fino ad oggi, se non di nome, Francesco Permuniam, non avendo mai letto un suo libro. Questo è il primo e sicuramente ne seguiranno un secondo e un terzo, perché alcuni dubbi me li ha lasciati, nonostante la frase riportata sulla fascetta di copertina - scritta da Emanuele Trevi -:“In Permunian sembra di riconoscere ancora intatto il potere della scrittura letteraria come inteso dai grandi maestri moderni, da Kafka a Cèline a Beckett “. Ora, come fare a non tenere in considerazione il parere di questo autorevole vincitore dell’ultimo premio Strega, che, aprendo una breve parentesi, io amo molto e davvero moltissimo quel suo libro “Due vite“ che narra, appunto,  le vite di Rocco Carbone e di Pia Pera, scrittori scomparsi prematuramente e molto legati a Emanuele Trevi. Generalmente non tengo in grande considerazione gli altisonanti pareri scritti sulle fascette, talvolta sguaiati gridi di richiamo su inutili libri. Ripongo la fascetta all’interno del suo libro, a futura memoria. Però, questa volta, ironia del caso, il protagonista di questo romanzo in tre atti, è proprio uno scrittore vincitore del premio Strega. Diciamo un vincitore quasi contro la sua volontà, avendo iniziato la sua carriera più come cantante che come scrittore. E’ il dottor Lunfardo, in arte Don Fifì. Ma, ben presto resosi conto che non era destinato a diventare il nuovo Don Backy, sarà costretto a ripiegare sulla scrittura di libri e non di canzoni. Il suo sguardo sarà severissimo, oltremodo polemico nei confronti dell’attuale mondo dell’editoria, probabilmente si vede che qualche bel sassolino il nostro “ Don “ Francesco se l’è voluto togliere dalla scarpetta, “ahi, che mi fa tanto, tanto male, ahi. Batto il piede in su, lo batto in giù, Giro e mi rigiro, sembro Belzebù“ (ve lo ricordate Natalino Otto ?). Chiusa la parentesi, ahi, ritornerei a quell’epigrafe iniziale posta a inizio libro, che è una frase di Italo Calvino (“ da “I libri degli altri “ ): “A lavorare da un editore viene un cuore di pietra“.    

Don Fifì è nato nel 1951 (stesso anno della nascita di Permunian), l’anno della grande alluvione del Po, in quelle terre “miserabili“ del Polesine. E’ qui che lui vive ed è cresciuto, imparando a decifrare quei” glauchi reami incantati “, popolati da fantasmi remoti. Vincitore del premio Strega, non per suoi meriti ma per il “peso“ della casa editrice che lo ha pubblicato, lavora in una delle maggiori società editrici italiane. E osserva quel gran fiume avernale dell’editoria da cui spuntano, prendendo a prestito una immagine dello scrittore cileno Roberto Bolaño, le teste di innumerevoli scrittori, destinati ad affogare, e quindi a scomparire per sempre. Lui stesso si considera uno scrittore fallito, frutto di un patteggiamento tra una casa editrice milanese e un agente discografico, si ritiene assolutamente privo di capacità letterarie, con ancora il grande sogno di riuscire ad eguagliare, prima o poi, la voce di Frank Sinatra. Osserva e scrive da “quel buco della pianura padana“, sognando quel “Don Chisciotte da strapazzo“ che “è“ Giorgio Manganelli e che, armato di martello e di una lunga lancia, “vuole“ sterminare quasi l’intera stirpe dei romanzieri. Come lo stesso Permuniam, mi par di capire. Ma torniamo a Don Fifì, costretto ad arrivare a Milano, ogni giorno, dove lavora, e a vedere i suoi colleghi e la segretaria di redazione, tutto quel mondo che lui disprezza sempre di più, assieme a tutta quella folla sempre più popolosa di scrittorini in erba che da lui cercano aiuto e insegnamenti. Oltre ai personaggi dell’editoria, ci sono anche quelli della vita di ogni giorno, che popolano il suo paese e la sua memoria, come ad esempio Patrizia, che non è soltanto l’antropomorfica macchina da scrivere di Giorgio Manganelli, ma è anche quella “gnocca“, figlia di un’ex ausiliaria della RSI, e amica  di Don Fifì, che gira a bordo di un sidecar ed è soprannominata la “Funebrera“ e che nella vita fa marchette, come prima di lei, la madre. Sfilano stralunati e grotteschi personaggi della commedia umana che popolano la sua vita così come i suoi sogni sfilano trasognati tra le pagine del libro, difficili da afferrare, inconsistenti ma corporei. Tragici, buffoneschi, inconcludenti, come comparse estemporanee di un mondo al collasso. Ironici, loro malgrado. E nella seconda parte, come a voler intravedere la radice primaria del suo fallimento, Don Fifì riporta le tracce di un suo manoscritto giovanile, ritrovato in soffitta, in cui, il protagonista, è il suo alter ego giovanile. Si apre quasi un siparietto, intimo e godibilissimo, e la luce illumina una famiglia di cui lui fa parte essendone il figlio unico, con un padre ipocondriaco, morbosamente maniacale, detto il Gegè, e con una madre succube, l’Esterina. Con ironico e strampalato sguardo, si arriva alla terza parte del libro, dove cerchiamo di tirare le fila di questo romanzo. Siamo nell’inverno- primavera 2020, sul Lago di Garda, in piena pandemia. Con provviste in frigo e in credenza fino all’orlo, come noi tutti ben conosciamo, cercando un qualche santo a cui raccomandarsi, o un santuario in cui rifugiarsi. Ci sono ancora Don Fifì, l’indiscusso protagonista del romanzo, il Gegè, l’Esterina e lo zio Antelmo, fervente antimilitarista. Allucinazioni notturne, psicanalisi e scrittura. Ancora l’amata- odiata Patrizia e il suo sidecar, rumori di sottofondo in un mondo sottosopra, dove cercare di scriverlo e raccontarlo sembra complicato e sempre sfuggente, ma sembra essere anche l’unico modo per tenerne traccia, per fermarlo in brevi fotogrammi. Basta comunque che siano davvero in pochi a farlo e i migliori, altrimenti dobbiamo dar ragione a quel Monaldo Leopardi quando scriveva “quel pizzicore di letteratura che è entrato ancora nelle ossa dei pescivendoli e degli stallieri“. E su questo concordo pienamente con te, “Don“ Permunian, il talento è davvero di pochi e la scrittura non è per tutti, e se qualcuno ha quel pizzicore, se lo faccia passare in fretta! Ahi! Ti saluto, ci rincontreremo presto, ciao.                         (STELLA  MARINA)

11  Ottobre  2021

Una visione del mondo

di John Cheever

Lo ricordo ancora perfettamente quel giorno di maggio del 2012. Era pomeriggio ed entrai nella mia libreria di fiducia con la forte determinazione ad acquistare quel libro con la copertina verde pistacchio che sapevo esser stato appena pubblicato per Feltrinelli. Pochi mesi prima, mi pare a novembre, per la stessa casa editrice era uscito quello splendido libro, del medesimo autore, dal titolo: “Una specie di solitudine“ e mi aveva tenuto compagnia per gran parte dell’inverno, essendo un diario, un taccuino, o una “biografia brutalmente onesta“. Ne leggevo poche pagine al giorno, camminavamo insieme, soppesavo ogni singola parola, sentendola scorrere insieme alla musica della pioggia. Mi sentivo al sicuro con quel libro in mano, mentre fuori la pioggia bagnava le strade, le piazze, scivolando in gocce su ogni superficie di vetro. Ed era bello guardare scendere ogni singola goccia lungo quella sua traiettoria casuale e contemporaneamente cercare di trattenere ogni parola di John Cheever, sentirla scendere in profondità per poi lasciarla risalire verso l’alto e ascoltarla nel suo  farsi pensiero. Non ero sicura che quella stessa magia si sarebbe potuta ripetere con una raccolta di racconti, però entrai in libreria, quasi correndo, e mi precipitai alla cassa con quel mattonazzo di ben 828 pagine. 

La magia si replicò. Ma questa volta era primavera, tutto era profumo e rinascita. Al posto delle gocce di pioggia c’era un esplosione di fiori, foglie, odori e la condizione umana sembrava meno miserabile, tutto poteva avere il suo rovescio mettendo in evidenza “l’altro lato delle cose“ così come lo chiama Julio Cortàzar, un altro eccellente scrittore di racconti. La raccolta iniziava con: “Addio, fratello mio“, e  aveva questo incipit: “La nostra è una  famiglia che è sempre stata  spiritualmente molto legata. Nostro padre è morto annegato in un incidente di barca a vela, quando noi eravamo ancora ragazzini, e nostra madre ha sempre sottolineato il fatto che i nostri rapporti familiari hanno una sorta di stabilità che non ritroveremo mai più altrove. “La chiarezza, l’armonia, di questa frase, il suo percorso all’interno della struttura del racconto mentre via via va disintegrandosi, scomponendosi nel suo opposto, lasciandoci all’evidenza di un gioco del rovescio che ha però una sua catarsi, una sua forma di riscatto e di bellezza, come il sole che risplende subito dopo un temporale. In questa “ nuova “ raccolta, pubblicata da Feltrinelli ed uscita  negli ultimi giorni di questa estate, questo racconto è il terzo. Julian Barnes, a lui si deve questa selezione di racconti con tanto di nota introduttiva, ha iniziato il libro con un altro racconto, che io amo particolarmente e si intitola “Una radio straordinaria“. Qui il gioco del rovescio non porta ad un giorno di sole dopo un temporale, ma partendo invece da una giornata apparentemente piena di sole, apre poi uno squarcio sull’imprevisto, sull’inaspettato, sull’insospettabile nascosto dentro ogni relazione amorosa e non.

Come “dice“ Antonio Tabucchi, “raccontare è un  gioco. Il gioco mi ha sempre tentato, ma in questo momento il gioco che più mi tenta è quello del Rovescio, che consiste nell’ individuazione di “un’unità contraddittoria“. Illuminazioni che inquietano e allarmano, ed ecco che siamo giunti anche nel cuore di questi racconti di John Cheever, ma anche in quel forte desiderio di andarmi a rileggere quel magnifico libro di Antonio Tabucchi- “Il gioco del Rovescio“- e voi, ve lo ricordate? Ecco che poi, come sempre, è vero che un libro conduce sempre ad un altro libro, e spesso, a più libri, proprio come in questo caso. Un libro è più libri e più vite, la nostra, e quella dei nostri amici di carta.  Si toccano e si contaminano a vicenda, di continuo.

Ora la domanda è legittima: perché questa raccolta quando esiste già una raccolta più completa dello stesso autore? Questi racconti, si potrebbe obbiettare, li ha scelti Julian Barnes, anche se sono già TUTTI presenti nel famoso “mattonazzo verde“ del 2012. Barnes li ha disposti a suo piacimento secondo un suo ordine di preferenza, ne ha scelti sedici su una sessantina, forse sessantuno, e ha scritto una sua introduzione. Convengo che la copertina è bellissima, con il dipinto “Long Day in the Sun“, del pittore Jonathan Wateridge, ed è assolutamente azzeccata;  alcol, middle class, apparente beatitudine, forse  giovinezza, estate, sole, stato di relax… sembra quasi quel nuotatore dell’omonimo racconto, anche se la copertina di Fandango con disegno di  Gianluigi Toccafondo per me rimane insuperabile. Fandango ha pubblicato diversi libri di racconti di John Cheever, “Il nuotatore“, “Un giorno qualsiasi“ e “Una radio straordinaria“ fanno parte di uno  stesso volume e sono stati tradotti da Marco Papi. Si avvalgono della prefazione di Fernanda Pivano. Non so se siano attualmente ancora in catalogo, credo di no, però li trovo davvero bellissimi, merita davvero ricercarli. Tutto questo solo per rammentare a me stessa che il “Nuotatore“ l’ho letto ben  tre volte, anche quest’ultima volta non ho saputo resistere al suo fascino. L’ho riletto, perché è un racconto magnifico. Con la raccolta “The Stories of John Cheever vinse Il Premio Pulitzer, 1979. Come ricorda Fernanda Pivano, John Cheever ha avuto il merito di far rinascere il racconto in America, era un genere guardato con diffidenza dagli editori, perché poco vendibile, nonostante le eccezioni di Fitzgerald e naturalmente di Hemingway.

Ma qui si sta parlando di due giganti, di due eccezioni con un peso specifico non indifferente. Comunque nel 1978 uscirono i racconti di Cheever, sessantatrè scelti tra i centodiciannove usciti sul New Yorker. Furono vendute 800.000 copie in poche settimane. Gli americani si riflettevano in quelle vite, in quelle loro feste sui prati, nelle loro abitudini serene, in quella apparente tranquillità. Ma sotto la superficie di quella tranquillità, c’è sempre, o almeno quasi sempre, la disperazione, “tanto più drammatica quanto più immersa sotto la superficie levigata delle false apparenze“. Non è forse per questa dolente sofferenza, tragica sofferenza, che si rimane in silenzio, ammutoliti davanti a “Il nuotatore“? A quel Neddy Merrill, che sembra avere tutto dalla vita, bellezza, ricchezza, felicità, ma che poi scopriamo essere un uomo distrutto, infelice, fallito, che non si ricorda più neppure del proprio fallimento e neppure della sua casa ormai disabitata? Lo vediamo attraversare piscine, attraversare prati, toccare vite, abitudini, ascoltare conversazioni, mentre lentamente il buio lo avvolge sempre di più mentre nell’aria c’è odore di crisantemi o forse di calendule e il cielo autunnale sta cancellando intere costellazioni estive. C’è buio, e silenzio, la ruggine di una maniglia, una vita sgretolata, annientata, sotto la sua apparente levigata superficie. “Le mie costanti sono l’amore per la luce e la decisione di tracciare una catena morale dell’essere…in un mondo che si stende intorno a noi come uno stupefacente e stupendo sogno “. Forse non siamo quasi mai all’altezza di questo stupendo-stupefacente sogno, siamo come quel nuotatore, attraversiamo il buio brancolando nel buio, cercando di aggrapparci a luci di costellazioni che però mutano di continuo, scompaiono e appaiono a seconda delle stagioni. Spesso la vita ci travolge, ci segna, ci cambia. “Apprendre à vivre“ è imparare a fare i  conti con il buio, il vuoto, e l’abisso, con l’altro lato delle cose.

Non so che pensare di questa “nuova“  raccolta, l’introduzione non mi ha entusiasmato, c’è un confronto troppo marcato con John Updike che mi ha leggermente infastidito. Siamo in una raccolta straordinaria di racconti, vogliamo semplicemente celebrare la grandezza di questo scrittore che ogni volta che lo rileggo mi commuove? Forse perché ancora rammento la bella introduzione dell’edizione del 2012, fatta da Andrea Bajani, poche pagine ma dritte al punto, dentro la scrittura di Cheever come è giusto che sia perché se lo merita alla grande di essere celebrato. E allora, l’unico motivo per acquistare questo libro - per chi già è in possesso dell’altra raccolta – è solo   per il piacere di leggere ancora questi racconti. Per sentir scendere la temperatura a otto gradi, accendere quattro candele per la cena, guardare donne nude mentre escono dal mare, così belle e piene di grazia, fermarsi ad osservare una bambina seduta su una panchina, accanto ad una valigia, sentire lo sparo di una pistola mentre attraversa l’aria e centra perfettamente il suo obiettivo. Fermarsi ancora una volta a guardare un uomo seduto sulle proprie ginocchia in attesa di una via d’uscita o forse di perdono. Ci sono re in abiti dorati che cavalcano elefanti mentre cercano di scrivere al volo su di un foglio“…un mondo che si stende intorno a noi come uno sconvolgente, stupendo sogno…” Questo è davvero l’unico motivo per acquistare questo libro, per leggere ancora una volta questi piccoli capolavori lanciati disperatamente verso lo spazio, come piccolissimi intermittenti bagliori che cercano salvezza, o semplicemente, la musica della pioggia. Per chi invece non ha l’altra raccolta di racconti, consiglio vivamente di compare il mattonazzo color pistacchio ed immergersi a piacimento tra le sue pagine, e trovare il proprio racconto mentre le foglie iniziano a cambiar colore e si accendano lentamente di un arancione dorato. La narrativa è arte, e l’arte è il trionfo sul caos, direbbe Cheever. Forse non è mai proprio un vero trionfo sul caos, diciamo che l’arte cerca di tenerlo a bada, donandoci quel respiro necessario per inseguir le stelle, “le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese“…        (STELLA  MARINA)

 

11  Settembre  2021

Staccando l’ombra da terra.

di Daniele Del Giudice.

 “(…) vuoi andare fino in fondo, al fondo della pista, verso quell’attimo di disequilibrio con cui tutto si solleva, s’impenna, staccando la tua ombra da terra.“

Sì, anche lui ci ha lasciati, il 2 di questo ancora estivo settembre, poco più di un mese dopo la scomparsa di Roberto Calasso, altra enorme perdita per l’editoria italiana e ovviamente per Adelphi. Daniele Del Giudice, questo nostro scrittore aviatore , “scrittore – aereoplano“ , amato da Italo Calvino e appassionato di volo, pochi giorni prima del riconoscimento del premio Campiello per la carriera, ha deciso di staccare definitivamente la sua ombra da terra. Ci ha lasciati con alcuni dei suoi stupendi libri e questo struggente desiderio di rileggerli tutti, uno dopo l’altro, per ritrovare quella sua scrittura perfetta, lucida, aperta sull’incommensurabile nulla, sul vuoto che gravita intorno a mille possibilità, dove le linee della vita incontrano e si intersecano con l’infinità dello spazio e delle probabilità. Per ritrovare ancora una volta “quello sguardo e il sorriso di eterno bambino infelice in cerca di stelle“, come ha magnificamente scritto Corrado Bologna in un recente articolo a lui dedicato, quello sguardo capace di “vedere oltre la forma“ con la geometria cosmogonica della sua scrittura. Ho iniziato rileggendomi “Staccando l’ombra da terra“, pubblicato nel 1994 , libro che purtroppo Italo Calvino non ha potuto leggere, un libro che ho amato moltissimo. Ritrovando le sottolineature di allora, come una cartografia di un pensiero che andava formandosi attorno all’ossatura di questo libro fatto di otto brevi narrazioni, ho riascoltato il brusio di sottofondo di quelle percezioni e immaginazioni che la mia mente produceva mentre lo stavo leggendo. Ci sono singole parole cerchiate più volte, intere frasi sottolineate, appunti al margine della pagina fin dove quel piccolo spazio bianco permetteva le mie divagazioni, impressioni, emozioni, domande.

L’affascinante descrizione del primo racconto in cui il protagonista, probabilmente l’autore stesso, racconta il suo primo volo da “solista“, senza essere accompagnato dal comandante e suo maestro Bruno, solo nell’atmosfera a guidare quel “patrimonio di velocità da smaltire“, che diventa aereo nel momento stesso in cui stacca la sua ombra da terra nella sua definitiva metamorfosi in creatura non più terrestre. Qui la parola che ho cerchiato più volte è stata proprio quel “disequilibrio“, quell’attimo di disequilibrio che ha l’aereo quando sta per staccarsi da terra in piena velocità. Quel momento che mi ha sempre elettrizzato in un viaggio, anticipandone le emozioni, ma è sempre stato e sempre rimarrà, anche un momento di estrema paura, in cui tutto potrebbe succedere e andare in modo diverso dal previsto. Il disequilibrio che ci permette di volare, l’antico sogno umano che si è concretizzato donandoci finalmente le ali, consentendoci di raggiungere distanze infinite in brevissimo tempo. Ma per un pilota di un aereo non c’è solo la meta, per un pilota appunto c’è il volo. L’incontro con il volo, lo spazio, le geometrie dello spazio. La possibilità mai remota dell’errore, dell’imprevisto, del non prevedibile, l’abilità del riuscire ad annullare i rischi, o ridurli al minimo, o, quantomeno, la possibilità di riuscire a fronteggiarli. La forza dell’esperienza, l’abilità e l’esercizio rigoroso dell’intuito, della tecnica e della memoria. Deve essere una sensazione magnifica guidare un aereo, ne convengo. C’è in ogni racconto questa stupenda meraviglia del volo, si percepisce in ogni pagina, riga, parola, lo stupore per questo miracolo che porta l’uomo ad avvicinarsi un po’ di più alle stelle, a perdersi dentro la consistenza irregolare delle nuvole, a dimenticarsi di sé nell’ incrocio delle correnti. Cosa spinge un uomo davvero a desiderare di pilotare un aereo, cosa lo guida, che demone lo possiede, e quali e quanti pensieri lo attraversano?

Nel buio della notte, magari in una sera d’estate come nel secondo racconto di questo libro, quello stesso uomo del primo racconto, il nostro apprendista pilota, si intrattiene in un aeroporto ormai vuoto, perdendosi a guardare le luci della pista, quegli “insetti azzurrini “ che circoscrivono lo spazio del volo, la traiettoria del lancio . Questa volta, a terra, lui percepisce le ombre di due piloti probabilmente ormai scomparsi, ma che ancora parlano e si raccontano, e gli raccontano, raccontano proprio a lui quella loro ultima notte prima che il loro aereo precipitasse. Visioni ad occhi aperti che appaiono di notte, quando i contorni della cose si fanno meno precisi, perdendo la loro specificità. Ghiaccio vetroso, l’attraversamento di una turbolenza, tempo sospeso che si dilata prima della tragedia nei concitati istanti spesi ad evitarla. Anche in questo breve racconto una parola cerchiata più volte, “opacità“, l’opacità della notte nell’opacità imprevedibilità del caso, della sciagura, che ribalta in un istante l’umano volere e tutta l’umana speranza. Sempre lui, anche nel terzo racconto, a descriverci la sua passione per il volo, rispondendo a quella mia domanda appuntata a piè di pagina del primo racconto “perché un uomo desidera volare“? Avrei solo dovuto aspettare, e lui mi avrebbe risposto. Quel seducente pensiero di essere un animale volante potrebbe essere parte della sua risposta, lo stesso uomo che da bambino pensava di essere un tram: “ero ipnotizzato dal movimento, dallo scorrimento del paesaggio in miniatura“. Così camminava pensando di essere un tram e faceva tutte le fermate proprio come se lo fosse stato realmente; “aprivo e chiudevo le porte con uno sbuffo d’aria tra i denti“. Una predisposizione naturale al volo, ad immaginare il volo. Una predisposizione alla visione “obliqua“, e subito compare la mia terza parola sottolineata più volte, come a rammentarmi la differenza considerevole tra la visione verticale e quella obliqua. La vera visione del pilota è quella obliqua, “una visione di relazione con la terra e di profondità spaziale.“ Questo terzo racconto ha pagine magnifiche, ma certo il quarto non è da meno, anzi forse è il mio preferito. Lo straordinario incontro del nostro pilota apprendista con un anziano comandante pilota di un aereo silurante, il “Settantanove“, che gli racconta di quelle sue notti in volo quando era impegnato in quel conflitto nel Mediterraneo nel 1942. Questa volta la parola sottolineato più volte è “Leica“. Mi colpì molto leggendo, come anche questa volta mi ha colpito, rileggendo, come i fotografi di guerra venissero tenuti per i piedi dagli armieri per potersi sporgere fuori dalla torretta, sulla gobba, per poter scattare una foto dopo l’altra, istantanee velocissime che sarebbero servite poi per studiare lo svolgimento dell’azione, per verificare se gli obiettivi erano stati centrati e soprattutto da chi, se e quali danni c’erano realmente stati. Rimane anche questa frase magnifica, pronunciata da questo anziano comandante, come se la storia, qualsiasi storia, anche invisibile, in realtà non possa mai venir cancellata completamente, non vederla non significa che non continui ad esistere in qualche modo. E’ un’idea che mi affascina e al tempo stesso mi inquieta. La frase è questa: “Il cielo sopra le nubi è una memoria magnetica, lì tutto è rimasto impresso, come sui sali d’argento delle fotografie, del resto sarebbe insensato che quel che c’è stato una volta non ci fosse più, non le pare?“. Trovo per fortuna, sfogliando il libro, la quinta parola che mi consente di uscire dall’empasse di questa domanda che comunque continua a ronzarmi nella testa e alla quale fatico a rispondere, la parola è “overspeed“ ed indica la velocità che porta al cedimento strutturale di un aereo. Il titolo di questo racconto è “Fino al punto di rugiada“, dove il nostro apprendista pilota si perde in volo, non riuscendo più ad orientarsi né a trovare il coraggio di ammetterlo né di comunicarlo alla torre di controllo. Questa parola si aggancia per riflesso all’altra del racconto successivo, la invoca in forma di estremo aiuto: “anti-istintive“. Una parola pronunciata dal maestro Bruno, quel taciturno maestro di poche essenziali parole, simile a un “capo indiano“, un vecchio capo indiano di pochissime parole e di “ancor meno spiegazioni“, mentre l’apprendista pilota così dice:“Il nord è il nord, sebbene non il solo, ma è un semplice riferimento, ogni grado della bussola gode di pari dignità, qualunque punto della terra è contemporaneamente origine e fine del viaggio, capovolto di volta in volta, e all’occasione. Se potessi accettare che quel che conta è solo il tratto, anzi “la tratta“ come tu chiami il percorso, senza nostalgia della partenza né dell’arrivo: oppure sapere che partenza e arrivo possono essere di volta in volta la stessa cosa, coincidere. Forse voliamo per questo, Bruno, per quel piccolo appagamento che dà ogni volta il partire-arrivando, l’arrivare nell’atto stesso del partire, e per l’idea di aver compiuto almeno questo: sembra di aver fatto qualcosa, anche se quel che si è fatto sono solo miglia. “Per raggiungere la meta serve l’esperienza, conoscere ogni possibile manovra, ma soprattutto conoscere le manovre “anti-istintive“, l’istinto è qualcosa che va lavorato, contraddetto e usato al rovescio. In situazioni di pericolo, l’unica traiettoria ragionevole “sarebbe quella eccentrica, che porta verso il margine, seguirla con delicatezza lungo il bordo senza fuoriuscirne.”. Così, a volte, anche nella vita, io credo. E anche questa frase si apre a infinite domande e divagazioni dal testo, sembra di sentire scorrere la propria esistenza su quel cordone di salvataggio, una visione obliqua che porta verso il margine, a una possibile salvezza, se ne fossimo capaci o ne fossimo stati capaci, talvolta. Il 27 giugno del 1980 coincide con la data della strage di Ustica ed è l’argomento del settimo racconto di questa raccolta. Ottantuno furono i morti, zero i sopravvissuti di quel volo IH 870. Il pilota perse il contatto radio con l’aeroporto di Ciampino, l’aereo si disintegrò, ma ancora si continua a discutere sulle cause, sulla dinamica stessa dell’incidente. A Bologna, nell’ex deposito tranviario della Zecca, è nato nel 2007 il museo per la memoria di Ustica in occasione del ventisettesimo anniversario della strage. Ci sono i resti del DC-9 assieme ad una installazione dell’artista Christian Boltanski, composta da 81 luci e 81 specchi per ricordare appunto le 81 vittime.

Ci sono anche alcuni degli oggetti personali appartenuti alle vittime. La parola qui cerchiata è “tremila“, tremila metri sotto il livello del mare, tremilasettecento, quell’aereo nato per il volo sprofondò nelle acque profonde e poi dal mare risalì pezzo dopo pezzo, un po’ per volta, dopo la strage. La notte, come descrive magistralmente Del Giudice, si potrebbe ancora ascoltare da quell’aereo “un lento gocciolio“. Come se il mare per anni premendo le molecole di metallo, “una volta a terra e all’asciutto, continuasse a uscirne, gocciolando, e l’aereo non smettesse mai di liberarsene“. Niente, ancora una volta, va perso, tutto rimane “in memoria“ sulla tratta dell’esistenza. L’ultima parola che ho cerchiato è “Corsica“. Tutto mi porta e mi ha portato su quest’isola meravigliosa, sembra che il fine di questo libro sia stato proprio quello di depositarmi sul suo nord, sulla forma affusolata della sua estremità, su quel dito audace ed indicatore che forse segna un’appartenenza o forse semplicemente si distende su quelle acque azzurre che lo lambiscono. Se dovessi e potessi scegliere, io sarei una creatura di mare, ho poca confidenza con il volo, se non quello dell’immaginazione. La Corsica però raccontata da Del Giudice è quella che vide nel suo cielo in una bellissima giornata di luglio, il volo di un Lockheed P-38 Lightning, un aereo americano su cui lo scrittore-pilota Antoine de Saint-Exupèry si imbarcò per un volo di ricognizione. Era il 31 luglio del 1944, ed è anche il giorno della sua morte. Staccando l’ombra da terra, tutto infatti può o potrebbe succedere. Ma...

“I piloti non hanno ali piumate, sono bambini adulti, bambini nascosti, ben custoditi nella loro maturità, ben conservati dentro una delle imperturbabili professionalità che la vita ha loro assegnato, ma legati all’infanzia con un elastico da fionda che gli sbuca dalla tasca.“  Niente da aggiungere. Davanti a questa frase, mi inchino per sempre.  (Stella Marina).


11  Agosto  2021

Meu amigo de alma

di Mário de Sá-Carneiro

E a volte si trovano vecchi libri che sono una delizia e che sembrano ricucire gli strappi di quella lettrice (io) che sembra talvolta dimenticarsi dei grandi, veri e autentici amici. Quelli con cui ha attraversato autunni piovosi, estati malinconiche, inverni freddi, primavere struggenti. Sembra così lontano quel tempo in cui incontrai per la prima volta Fernando Pessoa, e poi, subito dopo, Antonio Tabucchi. Eppure in quel tempo c’era già il germe di tre mie grandissime, inesauribili passioni: la letteratura (poesia), la danza (teatro), la musica. Questo libricino, uscito per Sellerio nel 1984, con la bellissima introduzione di Maria José de Lancastre (moglie di Antonio Tabucchi), dal titolo così importante, “Meu amigo de alma“, perché veri amici “de alma“ se ne incontrano raramente e quei pochi vanno saputi tenere accanto per sempre , questo libricino -appunto- raccoglie alcune delle lettere che lo scrittore portoghese Màrio de Sa-Carneiro scrisse a Fernando Pessoa, il suo amico de alma, con cui fondò la rivista semiclandestina l‘“Orpheu“. Sono lettere che parlano di letteratura, e come dice Maria José de Lancastre, “sono anche letteratura, perché fra l’avventura della scrittura che Sá Carneiro sta vivendo e la sua vita tutta mentale e tutta sognata non c’è soluzione di continuità.“

Sà Carneiro nacque a Lisbona nel 1890, ma a Lisbona preferì la vitale Parigi, ambiente più stimolate e interessante per lui, anche se il suo sottile e insondabile male di vivere lo allontanò da qualsiasi ambiente e da quasi ogni tipo di relazione. Visse in totale solitudine anche in Francia. Onnivoro, con tutti i sensi all’erta, imparò a guardare, a nutrirsi di ottima letteratura: Baudelaire, Mallarmé, Apollinaire, Laforgue, Max Jacob, e tutte quante le avanguardie. Per lui la letteratura fu “uno scandaglio da calare nelle profondità del proprio animo, un ponte di luce teso sugli abissi della sua fantasia.“ Ma non bastò a salvarlo. Della fitta corrispondenza intrecciata con Fernando Pessoa, sono rimaste circa due centinaia di lettere, quelle invece di Pessoa sono andate perdute, ma questo non ci sorprende, in realtà. La prima lettera riportata in questo volume è datata 16 novembre 1912, e l’ha scritta da Parigi all’amico Fernando Pessoa. Inizia così : Mio caro Amico, in una disposizione di spirito e in un giorno di pioggia, inquieto e nero come la pece, eccomi a rispondere alla Sua lunga lettera. Comincio col chiederLe scusa se in cambio Le mando solo poche righe: “poche e confuse righe“, un luogo comune che, in questo caso, corrisponde a verità. Finora non sono stato affatto felice in questo paese ideale. Anzi, ho vissuto ultimamente alcuni dei giorni peggiori della mia vita. Perché, mi chiederà. Per nessun motivo, è la mia risposta. O meglio: per mille piccole cose che fanno una somma terribile e desolante. Mi guardo indietro e i tempi che chiamavo sventurati mi sembrano oggi dorati, soavi e benigni. Davanti a me la strada a poco a poco si va facendo più stretta, si aggroviglia, perde i rami rigogliosi che la riparavano dal sole e dal vento. Ed io mi convinco sempre di più che non saprò resistere al temporale furioso - alla vita, insomma, nella quale non avrò mai un posto.  Ecco, vede, io soffro perché sento che si avvicina l’era in cui finirà la ricreazione, in cui bisognerà entrare in classe. Forse non mi capirà quando dico così, ma io non ho né pazienza né forza per spiegarmi più dettagliatamente: insomma, non credo in me, né nel corso che ho scelto, né nel mio futuro. Ho già preso varie decisioni da quando sono qui e un giorno ho sentito, ho sentito davvero, con orgoglio, che mi era venuta finalmente la forza necessaria per scomparire. Illusione dorata. Il mattino dopo quella forza invincibile era scomparsa. E allora avevo deciso di tornare a Lisbona, di seppellire dentro di me ambizioni e orgogli. Ma non ho avuto neppure la forza di far questo. Parigi mi sorrideva, e là lontano c’era un piccolo filo di speranza che tutte le mie aspirazioni mi facevano credere una fiaccola splendente. Passatami la sbornia, oggi mi rendo conto con desolazione di come era esile quel filo. Insomma, ancora una volta sono stato debole: ho rimandato, ed ecco che continuo a vivere, sempre cercando di restare a galla.

E poi, nella mia solita angoscia, piccole cose vengono ad esacerbarla : la nostalgia di tutto ciò che ho vissuto, le persone scomparse che ho stimato e che mi hanno voluto bene. Ma non è solo questo: soffro per i colpi che sono sicuro non mi risparmieranno, come, per esempio, la morte fatale e prossima di alcune persone che stimo profondamente e che sono vecchie. E soffro anche, mio caro amico, per cose ancora più strane e sottili: per le cose che non sono avvenute: di modo che ho vissuto questi ultimi giorni in una tortura costante e una notte ho perfino pianto -, cosa che da tanto, da quando avevo quindici anni, non mi era più successa. E infine, ciò che è più doloroso in tutto questo è che gli altri non possono capire la mia infelicità perché, vede, l’altro giorno ho stabilito questo quadro: Sono a Parigi /Sto bene di salute /Ho soldi /Posso fare quel che mi pare /Non ho preoccupazioni/ Non ho dispiaceri /Mi annoio da morire /Mi sento estremamente infelice /Vivo in una tortura costante /Soffro molto /La mia desolazione è infinita.

Lo so che tutto questo è puerile ma l’altro giorno ho scritto sul serio questo quadro in un foglio e avendolo sotto gli occhi ho potuto veramente misurare bene la mia sventura. Non voglio continuare ad annoiarla con le mie lamentele. Mi perdoni e mi creda: è l’unica cosa che Le chiedo. (...). Si capisce quanto sottile, intima e privilegiata sia stata l’amicizia con Fernando Pessoa, quasi inevitabile che due anime così si incontrassero e divenissero -appunto- amici “de alma“. Ogni lettera è splendida, è letteratura, vita, poesia. Nostalgia e dolore. Speranza e incapacità di vivere. Due giovani uomini all’inizio del Novecento, padroni di una lingua dolcissima intrisa di saudade, pericolosissima “rua“ da cui partire per decifrare il mondo, conversando sulla sua veridicità nella nebulosa sostanza dei sonhos. L’io e l’altro, l’altro da sé, l’ambiguità dell’Io che si sdoppia in Altro senza cessare di essere se stesso.             (STELLA  MARINA)

11  Luglio  2021

HAGARD

di Lukas Bärfuss.

 “Da troppo tempo tento di comprendere la storia di Philip. Vorrei scoprire il mistero che nasconde. E per l’ennesima volta ho fallito, incapace di decifrare l’enigma delle immagini che mi perseguitano, immagini crudeli e comiche come in ogni racconto in cui desiderio e morte si incontrano.“  Questo è l’incipit del romanzo dello scrittore svizzero Lukas Bärfuss, che io non conoscevo affatto fino ad ora, piacevolmente scoperto con la lettura di questo libro.  Scrittore, saggista, drammaturgo, ha fatto svariati mestieri, tra i quali anche il giardiniere. Mi piace pensare che proprio questo lavoro, l’osservazione costante della natura, gli abbia suggerito il titolo per questo libro: Hagard. Hagard, nel gergo della caccia, “designa quei falchi catturati in età adulta che non si lasciano mai davvero addomesticare. Sotto il segno di questa parola selvaggia, l’autore ha scritto un romanzo forsennato.”

L’idea del libro è molto buona, molto interessante il modo in cui è riuscito a svilupparla, i punti di vista, il circuito senza apparente via d’uscita in cui lo scrittore spinge il lettore, rivelandogli poi quello specchio in cui alla fine lo costringe a guardare/ guardarsi. Per un periodo l’autore è stato anche un libraio, evidentemente è riuscito ad assorbire molto bene l’arte della scrittura, leggendo molto, inoltre lui scrive anche per il teatro, quindi è abituato alla profondità e all’insondabilità dei possibili colpi di scena. L’enigma, il mistero, l’ossessione sono i sottili fili conduttori di questo romanzo, si intrecciano e si muovono in una contemporaneità racchiusa in poco più di una giornata del 2014, precisamente in 36 ore di quel giovedì tredici marzo. Tutto sembra accadere in quel giorno, eppure il romanzo ha più piani temporali, quello di Philip di cui si narra la vita concentrato in quello spazio di poche ore, e quello di chi narra la storia, ossessionato dalle circostanze che hanno cambiato la vita di Philip, ma che si muove in uno spazio temporale più ampio. E’ come regolare l’obiettivo di una macchina fotografica per trovare il punto di miglior focalizzazione, il punto migliore da cui raccontare la storia, per cercare di chiarire le circostanze in cui quegli avvenimenti sono poi potuti accadere, perché “a furia  di fissare gli alberi non vedeva più la foresta“. Il narratore è ossessionato dalle circostanze che hanno “cambiato“ la vita di Philip, e Philip è ossessionato da una visione che improvvisamente irrompe nella sua vita. E il lettore è ossessionato dalla ricerca di un significato, di una possibile fine. Quindi un gioco che lo scrittore vuol giocarsi tutto a tu per tu con il lettore, un gioco anche crudele, se vogliamo. Ma perché mai la letteratura dovrebbe essere consolatoria?  Ma procediamo con ordine, se possibile.

Intanto Philip. Chi è? E’ un uomo sulla quarantina inoltrata, “massiccio“ e un po’ fuori forma, di mestiere fa l’agente immobiliare, non particolarmente avvenente,  ha una figlia piccola, probabilmente una relazione. Un’esistenza solida e sicura in una città apparentemente tranquilla e quasi priva di rischi, eppure qualcosa al suo interno sta cambiando, come un “rivolgimento invisibile“, la città sta subendo una silenziosa e insidiosa metamorfosi. Forse questo in parte può spiegare il verificarsi di certi accadimenti all’interno del racconto. Ma questo Philip non lo sa, potrebbe invece saperlo, o intuirlo, il nostro narratore, che non è lo scrittore, ma l’altro personaggio del libro, colui che ci narra la storia e che dalla storia è narrato. Perché poi anche lui, lui che crede di raccontare, in realtà viene raccontato. Questa volta dallo scrittore, che mettendolo leggermente fuori fuoco, amplifica la nostra curiosità. Perché è così interessato alla storia di Philip? Perché ne è così ossessionato e non riesce a sfuggirgli? Cosa lo interessa veramente? Il destino al quale Philip è andato incontro più o meno consapevolmente, lasciandosi alla fine vincere dall’ignoto, da un’altra possibilità di vita? Forse. O vuol essere solo l’esatto testimone di fatti a noi sconosciuti e raccontarceli nel modo più esatto possibile per fare luce su una vita con una certa morbosa ma reverente attenzione? Sì, perché seguire all’improvviso una donna, immaginandosela più che “ vedendola “ davvero, lasciandosi sedurre da quelle  sue  ballerine  di pelle color prugna calzate con una certa eleganza e seduzione, mettere a repentaglio tutta quanta la sua vita per una donna che in realtà non vede, ma che comunque segue con una tenacia e ossessione tali da sconvolgergli completamente l’esistenza, è sicuramente qualcosa di  abbastanza inquietante, da indagare a fondo , da cercar di comprendere e questo  è quello che farà per noi il narratore, anticipando le nostre possibili domande. Appuntamenti di lavoro importanti, figlia, legami, casa, macchina, tutto il mondo di Philip all’improvviso in bilico per una possibile avventura senza però che lui riesca davvero a constatare se quell’avventura con quella giovane donna possa essere effettivamente possibile e, soprattutto, se alla fine quell’avventura meriti davvero. Se poi quella donna immaginata da un’esasperata fantasia, possa realmente corrispondere al suo desiderio, se quella sua “movenza“ di donna che lui si ostina a  inseguire insistentemente, corrisponda  effettivamente a quella che lui crede lei sia. Non la vedrà mai in volto.

Ma l’incongruenza è un altro elemento chiave di questo romanzo. Ci tiene spesso compagnia. In un mondo alla soglia del collasso, dove il futuro fa paura, dove si assiste al tramonto del mondo per come lo conosciamo (sigh!), dove tutto è in procinto di cambiare, con virus sempre più insidiosi e letali (il libro è stato scritto nel 2017 !), i comportamenti incongruenti sembrano quasi essere  una liberazione, la cura a tanti mali, a tante dipendenze. In un certo senso l’incongruenza è sovversiva. Evviva. Si seguono profili di donne, e si cammina con ciabatte ai piedi, anzi, si corre con una scarpa e una ciabatta a forma di scoiattolo, che avrà anche un nome: “Silly“. Niente ormai ha più importanza, solo il delirio di quella visione-apparizione che potrebbe forse salvare oppure uccidere. Lo sguardo ha indugiato troppo a lungo su quel corpo di donna, Philip non fa più in tempo a rientrare nel normale meccanismo della vita, nel suo ritmo. C’è un po’ di invidia da parte del narratore nel constatare questa libertà che si è presa Philip, per questo forse diventa una forma di ossessione, vuol seguire fino all’ultimo istante la traiettoria di questa libertà che sembra perfino in grado di ridisegnare la topografia della città, città dove vivono entrambi. La brezza di marzo può far brutti scherzi, a volte. C’è anche quella straordinaria canzone portoghese (la ricordate?) del caro Jobim che invita a diffidare dell”Aguas De Marco“, “a promessa de vita no teu coracao“, evidentemente Philip non l’ha mai ascoltata, e si fa sedurre , si lascia sedurre da quella brezza che gonfia la gonna di chiffon della donna, “ modellando qua e là le sue rotondità “, rendendo quasi evidenti le sue forme. “Era bella, ma ancor più bella perché l’aveva lasciata andare. “Forse se l’avesse lasciata andare tutto sarebbe finito nel giro di pochi minuti, ma Philip non la lascia andare, e la bellezza di lei diventa un enigma e qualcosa per cui si deve forzare il destino, riscriverlo, se necessario. Arrivare fino alla soglia del mistero. E lui lo fa nello stesso momento in cui il mondo è in fiamme, e questo sembra non piacere al narratore che vi legge una sorta di viltà, un sentimentalismo piccolo borghese. Ma è “solo“ questo?  Oppure c’è in Philip un richiamo profondo alla vita, l’ultimo richiamo disperato, come un urlo assordante nel furore disperato della vita? In fondo il narratore stesso si rifugia a Venezia, cerca tregua al suo interrogarsi, e non è anche la sua una piccola forma di viltà? Un distacco per non essere coinvolto, perché il coinvolgimento alimenta le domande e stravolge i punti di vista?  Chi è più libero tra i due? Oppure sono più simili di quanto sia possibile immaginare, ammaliati da una forma di desiderio irrealizzabile, il desiderio che tiene in equilibrio la vita e la rende tale, ovvero la rende vita.    Fino a che c’è desiderio, esiste la vita. Ma il desiderio di Philip lo espone a numerosi pericoli, lo porta sul filo di un baratro, posseduto da quel demone la sua vita è in serio pericolo.  Mentre il narratore ha imparato a tenere a freno ogni ardore, vivendo nella distanza, non lasciandosi più scalfire dagli incantesimi. Seguirà per noi fin dove possibile il desiderio di Philip, lo indagherà, lo indagherà anche per sé stesso, forse più per se stesso che per noi, abbandonandoci sul confine dell’ultima immagine. Lì, saremo davvero costretti a guardare con i nostri occhi, spingerci nella contemporaneità delle nostre vite, nel plesso vulnerabile della modernità, nel limite estremo di qualsivoglia tecnologia. Sapremo rispondere? Sapremo guardare? Sapremo incendiare ancora il desiderio? E basterà, eventualmente?                                                                (Stella Marina)

11 Giugno 2021

USODIMARE

Un racconto per voce sola

di Ernesto Franco

"La vita, amico, è l'arte dell'incontro". (Vinicius de Moraes)

Nel 1969 per la Fonit Cetra uscì l'album (sopra citato) di Vinicius de Moraes che si trovava in quel periodo a Roma, in una sorta di auto esilio, in seguito ai tragici eventi politici del Brasile di quegli anni. Il disco nacque dalla collaborazione alchemica di straordinari poeti del suono e della parola; Vinicius de Moraes appunto, Sergio Endrigo, Toquinho, Giuseppe Ungaretti e Sergio Bordotti. Ognuno di loro, a suo modo, un poeta. Ogni vita è l'arte dell'incontro. Come negarlo. Ogni vita si forgia sull'arte dell'incontro. Ogni piccolo o grande incontro apre nuove prospettive, nuove e diverse dimensioni di esistenza, nuove visioni del mondo. Gli incontri però possono essere anche fatti di disincontri, che non sono meno importanti solo perché sono" mancati" o "mancanti di". Lavorano nell'ombra, nella fascinazione del possibile, scavano nel ricordo, aprono al sogno.  Questo breve ma intenso racconto di Ernesto Franco entra in questa dimensione dell'incontro, in questa mancanza, dentro questa nostalgia di qualcosa che avrebbe potuto essere, per un attimo è forse stata, ma che poi invece di aderire ad una presenza, è divenuta assenza.

"Nenè e Usodimare sono legati da una serie di disincontri. Donna Marina non sa dirlo altrimenti. Il disincontro -cerca di spiegarmi- è l'incontro che sarebbe potuto avvenire. Anzi, che sarebbe dovuto avvenire. Ma che, per una impescrutabile ragione, non si è dato. Si era nello stesso posto, ma per millesimi di secondo diversi. Si era nello stesso minuto, ma in due stanze lontane. Si è sentita la stessa emozione, ma in due epoche della vita dispari. L'incontro, in qualche modo c'è, ma non avviene del tutto. E' quando trovi le parole il minuto dopo."

E' l'eco di una possibilità mancata che entra nella nave di Pepe Usodimare, comandante di una nave cargo, la Bahìa Inutil, in viaggio verso la demolizione. E' il viaggio, è l'avventura, il naufragio, l'assalto di pirati, l'acqua, l’acqua nell’acqua, la tempesta: "Si sente gocciolare la nave in mare. Acqua dentro acqua, acqua sull'acqua." E' l'incongruo, è il sogno, è " ancora una volta per l'ultima volta ", è la sensualità di una donna, il desiderio, la speranza, l'illusione, la possibilità di andare oltre il limite, è la sfida, è aprirsi a nuovi confini, è il terrificante urlo di un macaco che appunto -urlando- mostra i suoi denti sulla linea invisibile tesa tra sogno e realtà. È l'ostinata ricerca di decifrare un segno, di dare un significato a qualcosa che è già altrove mentre lo si sta cercando. E' l'impossibilità di fermare il tempo. E' la domanda che insegue il comandante nel suo ultimo viaggio.

"Di che cosa era pieno il vuoto di cui mi hanno colmato in tutti questi anni?" Il racconto sta per terminare, forse già è terminato, mentre in lontananza sentiamo la risata fragorosa di Usodimare. Deve forse aver trovato la sua risposta o - più semplicemente - si è reso conto che non c'è risposta. Che è molto più importante continuare a cercare che trovare e che la realtà muta di continuo. Si tratta ogni volta di riorientare la rotta, e rinnovare il viaggio. Con coraggio e determinazione.

"Va bene, ognuno di noi nasconde qualcosa e cerca o è cercato da qualcosa. A volte veniamo trovati, a volte no."  Ogni volta Ernesto Franco mi appassiona, mi coinvolge in questa sua scrittura labirintica e nostalgica. Uomo di mare e di libri, un connubio perfetto. Profondo conoscitore della letteratura ispano-americana, si laureò con una tesi su Julio Cortàzar, ed è anche traduttore dei maggiori scrittori latino americani.

                                                                            Stella Marina

    
11 Maggio 2021

IL CONDE

di Claudio Magris

Questo racconto apparve per la prima volta il 23 dicembre del 1990 sul Corriere della Sera, quindi possiamo considerarlo come un regalo che l’autore ci donò pensando a quelle sere invernali che ci attendevano, al freddo che ci sarebbe stato fuori e alla bellezza di poter leggere al caldo,  in casa, immaginando mari e mondi lontani. Aveva un titolo diverso rispetto a questo che poi è stato scelto per la pubblicazione del libro, si intitolava “Io, pescatore di anime morte“. Si legge in pochissimo tempo, forse in un’ora scarsa, sono poco più di una quarantina di pagine, però è uno di quei libri che con “poco“ riesce a raccontare il tutto, a sfiorare le questioni più urgenti della nostra vita, velandola di profonda nostalgia. C’è un soggetto, un marinaio, una voce narrante che parla in prima persona e poi c’è Il Conde, Il Conte del fiume, e attorno alla sua enigmatica, ombrosa, imperscrutabile figura si svolge la trama della narrazione. Da lui si propaga tutta l’atmosfera oscura, a tratti angosciante, a tratti pacata come dopo un pareggiamento di conti, quando la vita fa i conti con la morte, e i morti trovano finalmente pace, quella forse che mai hanno avuto in vita. Sì, perché il Conde fa un lavoro un po’ particolare, è un angelo degli abissi, dei fondali marini ma soprattutto dei fiumi, riporta a galla quei corpi che sono finiti in acqua, dispersi, annegati, volontariamente o meno. Tra la foce del Dourop dell’Ave fino ai paesi di Tràs-os-montes. Aveva cominciato portando resina e trementina a Vila do Conde, “bordeggiando sempre lungo la costa“, poi iniziò a ripescare cadaveri, con esatta precisione, con l’attenzione di un falco, tastando il fondo con la “stanga uncinata. Quello era il suo vero mestiere, quasi una misericordiosa missione. Per la vita aveva poca attenzione, prossimo alla malvagità nei confronti dei vivi, ma per quei corpi da ripescare aveva una fissazione, ripescarli per poi seppellirli in terra benedetta, “perché l’acqua è amara e distrugge tutto, anche il ricordo.“ Era il più bravo, nessuno era capace come lui, e per questo era diventato famoso un po’ ovunque, non soltanto in Portogallo, ne scrivevano sui giornali e molti andavano ad intervistarlo. La voce narrante è invece quella di un uomo nato per il mare, per la pesca, ma si è ritrovato a fare lo stesso mestiere del Conde perché scelto da lui, diventandone l’aiutante, il marinaio e il ramponiere. Ma lui, a differenza del Conde, ha orecchi per la vita, per l’amore, per la pioggia che bagna l’acqua del mare e dei fiumi, e che scorre, e che ravvolge. Ha occhi e cuore per l’acqua celeste che nella bella stagione bagna la sabbia dorata e per la madre, rimasta sola. Ha occhi e cuore per Maria, dalla pelle bruna e dai capelli neri, e dagli occhi color miele. Ma il Conde , ah, sempre lui, anche qui ci ha messo il suo zampino, perché poi le donne in fondo, lui dice “sono una pietra al collo“, e allora Maria o Giba, che differenza può fare nella vita di un marinaio. Eppure la differenza la fa, o meglio, l’avrebbe fatta se lui non avesse deciso di...e non si fosse intromesso, perché l’amore è amore, o almeno così dovrebbe essere. E allora quando niente si può più fare, rimangono solo i ricordi, il sapore amaro delle cose non possedute fino in fondo, non godute,  rimane il lavoro sempre uguale, l’acqua, e ancora l’acqua, perché questo è un racconto d’acqua e di pioggia, e di mare. E di sale, e di pianto. Rimangono i fondali e i corpi degli annegati. Rimane quello strano rapporto tra lui e il Conde, fatto di ruvido silenzio, gesti, forza e ostinazione. Ma per chi ama la vita come il soggetto narrante, c’è sempre la necessità di aggrapparsi alla vita e solo a quella, e così vita può essere, o può improvvisamente diventare, anche una polena schizzata fuori all’improvviso dall’acqua come un delfino, “tranquilla sotto la luna con i lunghi capelli biondi sparsi sulle spalle, i due poponi di seni fuori dall’acqua bianchi come la luna sopra di loro “. La polena che riscalda i giorni, riscalda i ricordi, una regina che tu non potrai mai sapere cosa porta nel cuore, una donna del mare abituata alle tempeste che già ha visto “quello che tutti hanno terrore di guardare”. “La polena è l’anima della nave e può trarti in salvo“, farti capire chi sei, rendere vivi quei pochi ricordi che tu stringi tra le mani, o voce narrante, o marinaio. E forse ancora acqua e sempre acqua, ancora acqua e pioggia, ma questa volta, per te, amico caro, forse finalmente, nuovamente il mare.         (Stella Marina)


11 Aprile 2021

Huck Finn nel West

di Robert Coover

Ve lo ricordate voi lo strepitoso incipit del libro di Mark Twain “Le avventure di Huckleberry Finn“ (1884 ) ? Ecco, io più o meno lo ricordo, anche perché è un libro che di tanto in tanto vado a rileggermi: ne sento proprio il bisogno. Lo prendo per la costa, sfilandolo piano piano dalla libreria, e lui comincia subito ad agitarsi dentro il palmo della mia mano, tanto che non riesco a tenerlo fermo. Ha sete di vita e di avventure nella natura selvaggia, ha sete di spazi aperti e di luoghi incontaminati, in un certo senso ha anche sete di giustizia. Comunque quel libro inizia così: Voi di me non sapete niente se non avete letto un libro che si chiama“ Le avventure di Tom Sawyer “(ecco un altro libro a cui ritornare!), ma questo non importa. Questo libro l’ha fatto Mr Mark Twain, e lui ha detto la verità, in genere. Certe cose le ha tirate in lungo, ma di solito ha detto la verità. Ma questo è niente. Non ho mai visto nessuno che non ha contato delle balle, prima o poi, tranne zia Polly, o la vedova, o magari Mary. La zia Polly – cioè la zia Polly di Tom – e Mary e la vedova Douglas, beh, c’è tutto in quel libro, che in genere è un libro veritiero, anche se un po’ tirato in lungo, come ho detto prima. Ora quel libro si svolge così: io e Tom abbiamo trovato la grana che i ladri hanno nascosto nella grotta, e così siamo diventati ricchi. Ci siamo cuccati seimila dollari a cranio – tutti in oro. Era un casino di soldi, a vederlo tutto ammucchiato. Bene, il giudice Thatcher se lo è preso, e lo ha messo a interesse, e ci dava un dollaro al giorno a ciascuno, per tutto l’anno – che quasi non sapevi che farci. (…).

Ecco, dopo che si è divorato più volte un libro come questo nella vita, siamo ormai diventati fratelli di sangue di Huckleberry, siamo un po’ lui . Siamo sempre dalla sua parte, ovunque lui vada e in qualsiasi guaio vada a cacciarsi, che poi mica lui lo sa tutti i guai a cui va incontro e che “accidentalmente“ gli capitano. Fin da quando era piccolo, ci ha insegnato a guardare il cielo stando sdraiati sulla schiena rischiarati dalla luce della luna, a sondare nella sua incommensurabile profondità, e a pensare “alle cose mie“, facendoci sentire in congiunzione con l’universo mondo. C’è sempre la forza dirompente e magica della natura, nostra compagna di viaggio, che lui non  dimentica mai e che cerca di vivere in ogni istante. Il suo essere ribelle, l’aver inscenato perfino la sua stessa morte per poterlo essere davvero fino in fondo, lo fa essere in totale sintonia con gli spazi aperti, con le acque del Mississippi e le vallate dell’Ohio. Questo di Twain è un libro di formazione, una formazione che riguarda anche noi e in ogni momento della nostra vita, Huck impara a comprendere tante cose sulla natura dell’uomo e sulla società americana del suo tempo, e anche  sulla società in generale. Trova le coordinate giuste per il suo passo, amici veri con i quali avventurarsi, anche se dovrà pagar cara la sua libertà, talvolta. Chiusa l’ultima pagina rimane sempre sete di questo romanzo indimenticabile, della corrente vitale del fiume Mississippi, limpido specchio in cui si infrangerà il sogno americano, di quelle parole di Ernest Hemingway che lo consacrarono come libro capostipite di tutta la letteratura americana moderna. Si continua ad invidiare ed aver nostalgia di quella sua zattera che scivolava lungo il grande fiume sotto “il cielo tutto pieno di stelle“, in cui si sta veramente comodi, liberi e felici discutendo se tutte quelle stelle “erano state fatte o erano venute fuori da sole, o forse erano state deposte dalla luna“, “come fa una gallina colle uova“. Scritto in prima persona con un linguaggio, ma no, no, ascoltiamola  direttamente da Mark Twain la questione non semplice, ma fondamentale, della natura del linguaggio di questo suo romanzo : In questo libro ho fatto ricorso a parecchi dialetti: il dialetto negro del Mississippi; la forma più stretta del dialetto parlato nei boschi del Sudovest; il normale dialetto della “Pike County; e quattro varianti di quest’ultimo. Delle diverse sfumature non mi sono servito in modo causale o sommario, ma con grande scrupolo e attenzione, sorretto dalla mia grande familiarità con tutte queste forme di espressione linguistica. Do questa spiegazione perché senza di essa molti lettori penserebbero che tutti i personaggi cercano di parlare allo stesso modo senza riuscirvi“. 

A chi dunque può venir in mente, alla luce di  tutto questo -mi chiedevo-, di immaginarsi un “sequel“ di questo capolavoro? Solo un pazzo, uno sprovveduto o uno scrittore estremamente vanitoso, non consapevole dei propri limiti e con un ego ipertrofico. Poi, osservando la copertina rossa del libro di Robert Coover uscito in Italia per NN edizioni, quella pipa senza fumo sotto un cappello a larghe tese, la luce forse di un tramonto ad illuminare ancora i tratti di un giovane uomo, indefinibile nell’età, pacifico nell’atteggiamento, intento  a bere ancora tutta quella luce che lo sfiora e che sfiora la terra in uno stato momentaneo di grazia assoluta, ecco, mi son detta, proviamoci. Proviamoci a leggere questo Huck Finn nel West. Per prima cosa, i miei complimenti vanno al traduttore, sarà impazzito con la lingua usata da Robert Coover che ha portato alle estreme conseguenze quella usata dallo stesso Twain. Un linguaggio sgangherato, inafferrabile e sgrammaticato proprio come Huck, deformazioni espressive imbizzarrite, spesso intraducibili, rapide come il vento, difficilmente malleabili per una traduzione fedele e coerente. Affermazioni che diventano dinieghi in uno straniante buffo risultato. Eppure. Eppure a volte i miracoli accadono, e la letteratura si fa fedele portavoce di tutto il cuore di un personaggio, che par quasi di sentirselo respirare accanto. Non vorremmo che fosse diverso da quello che è il nostro Huck, ed il grande merito di Coover è stato principalmente proprio questo, di avercelo riconsegnato integro, puro, lui e soltanto lui, con qualche anno in più. Leggendo un po’ di pareri in giro per la rete, c’è chi sostiene che questo libro lo si possa leggere anche senza aver letto quello di MarK Twain. Ma no, non fidatevi, non lo fate, prendetevi tempo per conoscere Huck Finn fin dai tempi di quell’incipit che ho riportato all’inizio di questo commento, fatevi questo straordinario dono, e lo farete anche alla mostruosa bravura di Coover. E’ davvero come incontrare di nuovo un vecchio amico, anzi, due (Tom), anzi tre (Jim ) amici. Senza la loro presenza la nostra vita non sarebbe stata la stessa, sarebbe stata diversa. Pensateci. I personaggi diventano nostri amici, confidenti, specchi e anticipatori di eventi. Ci parlano, ci mostrano i loro sbagli, le loro fragilità e le nostre. E quei giorni spesi-o meglio, guadagnati!- a leggerli, a incontrarli, ci hanno aperto gli occhi su un mondo che non conoscevamo e che non avremmo mai potuto conoscere così a fondo senza di loro. Chi meglio di Huck ci ha raccontato quegli anni quaranta dell’Ottocento americano? Illustrandoci le atrocità dello schiavismo ma  ricordandoci contemporaneamente anche dell’esistenza di quel profondo senso di amicizia che alberga nell’animo umano e che ci fa battere per ogni ingiustizia perpetrata ai danni di “nostri” fratelli. Forse è questo aspetto che più abbiamo amato di lui, questo senso profondo per l’amicizia, assieme al primitivo e istintuale amore per la natura. Quindi nel libro di Coover non potevano essere assenti questi due elementi, nonostante Huck sia cresciuto di circa vent’anni, si sia spostato nel West e si trovi nel periodo della guerra- e post guerra “sivile“, e della corsa all’oro. Gli piacciono le donne anche se la donna è “una specie la cui natura va al di là del mio fraintendimento“, ama da impazzire i cavalli, fa i lavori che gli capitano e che gli vanno a genio. Parla ancora in modo sgrammaticato, ha poca familiarità con la lingua, nega per affermare e afferma per negare nel suo modo sprezzante ma  profondamente ironico, si lascia incantare dai racconti dei nativi nell stesso modo in cui da adolescente  ascoltava le superstizioni ardite di Jim, dovendo poi ammettere  che  erano “ vere “, così come “ vere “ e bellissime  sono le storie e le credenze dei nativi.  “ Come fu, che poveraccio me, mi sono ritrovato sull’orlo di un vallone pieno di alberi defunti a guardare su per la canna di uno schioppo da caccia a pietra focaia pre-guerra, imbracciato da un vecchio cercatore d’oro strabico e mezzo matto, deciso a spedire il vostro sottoscritto fedele servitore, Huckleberry Finn, se non proprio all’altro mondo, quantomeno in fondo a quel lugubre vallone sotto di noi“. Ecco, che con magia e maestria, Robert Coover, con pochi, essenziali tocchi, ci fa ricomparire Huck davanti al nostro sguardo, e a nessuno viene da domandarsi “ma che ha fatto in tutti questi anni“? Il salto temporale avviene in modo naturale, senza grossi scossoni, perché l’immaginazione prosegue su una linea retta di coerenza con il personaggio. Huck ha fatto, fa, e farà sempre quello che gli andrà di fare, scegliendosi i compagni migliori per le sue imprese di vagabondaggio nella natura selvaggia, “saltellando da un lavoretto all’altro“, con profonda nostalgia per il Grande Fiume. Il suo nuovo grande amico si chiama Eeteh, appartiene alla tribù dei Lakota che sono sempre a caccia di mandrie di bisonti “in via di scomparizione“, tribù perseguitata dal generale Culo Tosto che è all’inseguimento anche di Huck perché si è rifiutato di aiutarlo nel farla cadere in una trappola, pur lavorando per lui, e diventando così un “traditore“ e protettore del nemico. L’altro inseparabile amico di Huck, questa volta è un cavallo, “Ne Tongo“, con cui sparirà nel profondo delle Colline Nere, sacre ai Lakota e impenetrabili dall’esercito. Le cose poi si complicano ulteriormente, con la nascita delle città, i saloon, le chiese, le femmine, l’oro e l’abbondante whisky prodotto da quel solitario, sdentato e zoppicante Zeb, altro amico di Huck. C’è comunque più disincanto in questo libro rispetto a quello di Mark Twain , lo stesso disincanto che ci coglie quando si inizia a crescere , quando la vita si fa meno avventurosa ma più difficile. Cavalcare, radunare mandrie, domare cavalli, sparare, trasportare sacchi di posta, fare le guide per i Confederati entro quel territorio così impenetrabile alla ricerca di oro e argento, erano i lavori più congeniali e preferiti da Tom e Huck, poi entrambi hanno deciso di separarsi, di andare ognuno per la propria strada e infilarsi così, nel cuore palpitante ma stramaledettamente feroce della storia. Le avventure divengono disavventure, ci saranno guerre, ci saranno tremende persecuzioni, uccisioni. Ci sarà tanta morte, ingiustizia, dolore e sangue. E le stelle sembreranno brillare di meno. Lo sguardo di Coover non può prescindere dai fatti della storia passata e presente per “ricostruire“ una visione d’insieme dell’America di oggi, figlia di quel tempo. Il cuore di un uomo- adesso Huck è un uomo - è fatto dallo sguardo, dall’attenzione, dall’ascolto verso il mondo che lo circonda, dalla risposta che ogni volta è in grado di dare guardando in faccia la realtà. Ma Huck non ci tradirà, nemmeno questa volta: “succede una cosa, poi ne succede un’altra e alla fine aristò nei guai come al solito“. Ma è il suo cuore quello che ci piace, quello che ci interessa, e che è rimasto immutato e sarà sempre  immutabile dagli eventi. “Gnente“ davvero lo cambierà, continuerà per sempre a scrutare nell’aria “crepuscolosa“ della sera con animo fiero, un po’ come in quella immagine di copertina del libro. Per questo suo sguardo noi lo amiamo, per questo io continuerò ad amarlo per sempre, in “solitarietudine”, se necessario. Leggetelo! Leggetelo sempre.   (Stella Marina)

11 Marzo 2021

La felicità degli altri

di Carmen Pellegrino

Non so dire ancora quanto e fino a che punto, o se invece non mi si sia piaciuto questo libro di Carmen Pellegrino. Forse mi è piaciuto in parte, o solo in parte. O forse mi è piaciuto, completamente. Dopo questa lettura, ce ne sono state molte altre, alcune davvero notevoli, come quella ad esempio di Alberto Savinio: “Ascolto il tuo cuore, città“. E allora perché non parlare della scrittura vertiginosa di quest’ultimo, della sua sapienza, della sua ironia, di quel suo sguardo che attraversa come un prisma cangiante e multicolore la sostanza impalpabile e inconoscibile della vita. Ci sarebbe molto da dire di quest’uomo scrittore, pittore, musicista, pensatore, inventore. Però i conti in sospeso non si lasciano, e allora torno al libro di Carmen Pellegrino, attendo che il tempo mi illumini sul suo valore, su tutto quello che questo libro mi ha lasciato di sé. A volte può bastare un aggettivo per salvare un libro o una virgola, magari un punto al momento giusto. In effetti un aggettivo mi ha incuriosito fin dall’incipit, e me lo sono portato dietro per tutta la lettura: “tignosi“. Chi sono questi tignosi? Sono loro, i fantasmi. Eccoli che si presentano subito e ci investono con la loro carica di ricordi; chi è che non ha “ fantasmi tignosi “ ben ancorati lungo il percorso della propria vita, io ce li ho, solo che a volte me ne dimentico perché li ho tutti pigiati alla rinfusa dentro un armadio, lasciandoli lì a disperarsi, anche se continuano a bussare perché mi decida a liberarli. Ma torniamo al libro e al suo inizio: “Sono nata in una casa infestata dai fantasmi. Allampanati, tignosi fantasmi da cui non si poteva fuggire“. Il peso del passato ci investe subito, non ci sono dubbi. Qualcosa di non risolto, di molto doloroso è talmente “tignoso“ da non concedere tregua alla protagonista del romanzo. Neppure l’abbandono di certi luoghi, nello specifico, la sua casa d’infanzia, riuscirà a far scomparire questi fantasmi. Sono lì, instancabili, beffardi, allampanati e risoluti. Si nutrono dell’ombra, della non vita, hanno forza a volontà, e soprattutto non hanno fretta. Camminano sfiorandoci nel buio, e ogni tanto, se la ridono di noi. A loro modo, ovvio, come sanno ridere i fantasmi. A me l’aggettivo “tignosi“ aveva ampiamente soddisfatto come descrizione, ero già nella coerenza del racconto, ma Carmen Pellegrino è precisa, forse fin troppo, e ci ha infilato un'altra bellissima parola per descrivere la storia di questo libro, un sostantivo di derivazione greca, con un suo indubbio fascino, devo ammetterlo: “questa storia è un’anastilosi, eseguita per gradi e con soprassalti improvvisi“. Ho faticato un po’, lo confesso, ad abituarmi alla anastilosi, però sono stata abbastanza pronta per adattarmi a questa nuova immagine che la parola andava via via suggerendomi . E dai fantasmi , son passata direttamente agli scavi archeologici di Atene, e guarda a volte il caso, questo mi ha rammentato ancora una volta Alberto Savinio e l’Infanzia di Nivasio Dolcemare. Sarei tentata nuovamente di ricordare quel giorno in cui Navasio Dolcemare uscì dal grembo materno, un giorno in cui il sole “picchiava a martello sulla città della civetta”. Ma no, l’anastilosi mi induce alla serietà, a ricomporre il mosaico come il suo modello originario impone, senza ulteriori interferenze. E allora forza, dentro “La città degli altri“, senza ulteriori indugi. Quindi, ricapitolando, abbiamo dei fantasmi tignosi e una protagonista che cerca in tutti i modi l’anastilosi, operando sulla psiche come un archeologo opera tra le rovine per tentare di ricreare la situazione originaria, una ricostruzione che possa essere il più possibile aderente a quella originaria, appunto. Ci si deve affidare alle cose che per prime sopraggiungono allo sguardo o tornano alla memoria, cercando di riportare tutto alla luce, per poi ricomporlo con estrema accuratezza. Un mosaico in cui il passato lentamente appare mentre il tempo tenta di ricongiungere e decifrare le cose. Venezia è la prima immagine vivida di questo romanzo, una città che a chi sa viverla e amarla, concede il dono della nostalgia. Si ha nostalgia anche di quello che non ha funzionato e che è stato doloroso. La città culla il passato e il presente, rendendoli meno acuminati l’uno verso l’altro in una osmosi d’ acqua, almeno questo è ciò che riesce a fare con me questa splendida città, rende meno forti i contrasti, più sopportabile i fallimenti, velando ogni cosa di struggente malinconia. E’ proprio qui che la protagonista del libro, ormai donna e non più bambina , incontra il suo Virgilio, il suo mentore, che saprà aiutarla a navigare e a destreggiarsi fra le ombre . Professore universitario, tiene un corso di Estetica dell’ombra, lui stesso ombra sottile, lieve palpito vitale. Gli si vuol bene subito, perché ha vissuto per sottrazione, in perpetuo silenzio, accecato dalla luce, ritagliandosi la sua zona d’ombra in questo mondo di spettacolare luce artificiale. “Si diceva che gli avesse fatto cilecca la vita“, ma forse viveva più degli altri, mi viene invece da pensare. Ho di lui una chiara immagine, nel suo completo grigio, quasi il colore di una appartenenza, di un patto fraterno di solidarietà con l’ombra. I ricordi della protagonista si muovono incerti nella vecchia casa dell’infanzia, piena di stanze buie e umide , con grossi orci di terracotta all’ingresso. Una casa con la quale ha avuto poca confidenza o una confidenza che creava spesso miraggi, spettri, dialoghi con i morti e con spiriti arcani, nella quale era difficile sentirsi completamente al sicuro. Genitori poco presenti, ognuno preso da se stesso e dai propri demoni interiori. Soprattutto la madre alla quale sempre si chiede protezione e ascolto, e che naturalmente è amore, soprattutto lei sembra essere la grande colpevole, la creatrice di orribili fantasmi e di orribili gesti, con conseguenze traumatiche e aberranti. Non viene mai chiamata mamma infatti, ma Beatrice, con il suo nome di battesimo. Una madre Beatrice, ”sbandata e balorda“, che non avrebbe voluto figli e che invece ne ha partoriti ben due. Questo disamore segna inevitabilmente la loro infanzia e concede la vittoria dei fantasmi sulla luce, crea irreparabile squilibrio tra realtà e fantasia. C’è un’altra parola, questa volta tedesca, che ci aiuta nell’identificare lo stato, il modo di essere della nostra protagonista, questa parola è “Schuld“, che indica insieme colpa e debito. “Alcuni di noi scontano la colpa e il debito di non essere venuti alla luce, di essere ammutoliti abitanti del buio“. Devo convenire con Carmen Pellegrino che la conoscenza delle parole e il loro significato preciso, il più esatto possibile , siano fondamentali per avvicinarsi al cuore multiforme delle cose, alla loro possibile essenza. La colpa e il debito rivestono il corpo nudo di questa donna mai veramente nata, e non mi riferisco alla madre, ma chiaramente alla figlia. Con lei noi viaggiamo nelle zone d’ombra, nell’incapacità di essere, di dare, di vivere pienamente. Nell’incapacità di dimenticare. E’ questa figlia abbandonata, ferita, che noi osserviamo e ascoltiamo. Sono i suoi ricordi che fanno la storia e la sua voce quella che cerca di riempire le stanze disabitate, disadorne di vita. Forse non tutti i ricordi sono precisi, ma quando mai lo sono? La salvezza non sempre è a portata di mano, però può accadere di incontrare persone che hanno la capacità di mostrare l’altro lato delle cose, di aprire piccoli varchi nel buio di un’esistenza. E’ quello che accade alla giovane protagonista del libro, Clotilde. Trova una “nuova famiglia“, nella “casa dei timidi“, presso la Collina, con Il Generale e Madame come “nuovi“ “genitori“, anche se i fantasmi continueranno a presentarsi al calar di ogni giorno. Ma il suo nome assumerà multiformi variazioni, sarà Clotilde – Cloe – ma anche Anais ed Esoluna. Per vincere il buio non si può combattere da soli, ma bisogna attingere alle altre forze che ci abitano, e che spesso possono venirci in soccorso, basta nominarle: “dentro di noi l’Universo, in noi il passato e l’avvenire“. Ma la luce, per chi è abituato al buio, per chi è “nata triste“, spaventa, come spaventano le relazioni profonde, autentiche. In fondo è la ricerca disperata della luce il significato di questo libro, una ricerca che nasce per contrasto, nasce dal buio, come nei dipinti di Caravaggio. Da un ‘infanzia segnata dalla solitudine e dalla ferita, da un corpo rimasto bloccato nel dolore, che cerca di risalire per trovare la luce, una nuova nascita, e il riscatto dal mondo complicato degli adulti. Come in quel racconto della crociata dei bambini agli inizi del Duecento, che si incamminarono per la vecchia Europa convinti di poter raggiungere Gerusalemme “solcando il mare come aveva fatto Mosè“, e “a piedi asciutti“. A ripercorrerlo nuovamente il romanzo, tentando in qualche modo di scriverne,  non mi sembrato poi così male come forse nella prima lettura; c’è l’ostinata volontà di superare il dolore ma ci sono forse troppe citazioni sottotesto, troppi riferimenti che appesantiscono in qualche modo la narrazione tanto che alla fine del libro ci sono rinvii bibliografici per il lettore “che volesse approfondire“. Un po’ come entrare nel taccuino segreto di Carmen Pellegrino dove ha appuntato frasi, poesie che per lei sono state fondamentali, sono state e probabilmente sono e sempre saranno. Chi, da ostinato e onnivoro lettore, non possiede un proprio taccuino personale con intere frasi ricopiate dai suoi libri sacri, che aiutono in qualche modo ad attraversare, più o meno brillantemente, le strade di questo mondo. Sono insieme ai fantasmi, tracce della nostra presenza su questa terra. Sono lavorìo instancabile, incessante. Sono domande, lacrime e sofferenza. Sono improvvisi e inaspettati lampi di gioia sullo scorrere cieco del tempo. Sono ombre che chiedono vita, anima. Ha una sua coerenza di fondo il libro, ma forse le sue coordinate hanno una tensione che è stata costretta all’ordine, forzata in una direzione di narrabilità che ha qualcosa di artificioso. Un tema svolto correttamente, con sapienza, con conoscenza, ma che mi ha lasciato un po’ la sensazione di briglie sul collo. Il tema mi è piaciuto, l’ambientazione anche, la scrittura sicuramente sì. Ma tutto questo, anche se fondamentale, non è sufficiente di per sé. C’è sempre quell’invisibile stato di anarchia , possibile via di fuga, che va lasciata al lettore, altrimenti lui potrebbe girarsi di scatto e, improvvisamente, mordere. La dedica finale dell’autrice è molto bella, e diciamo che l’affondo del mio possibile morso ne ha tenuto conto, come ha tenuto conto della splendida poesia di Adrienne Rich, citata quasi a fine testo: “Sono venuta ad esplorare il relitto. Le parole sono intenzioni. Le parole sono mappe. Sono venuta a vedere il danno compiuto e i tesori che persistono.“ Ve la ricordate? Rileggetela per intero, è veramente molto bella, e in questo romanzo , non lo nego, è perfetta, ci sono sempre piccoli tesori che persistono in ogni singola vita. Ma ritorniamo alla dedica finale a questo libro da parte della sua autrice, che è un commiato ma anche un augurio: nessuno mai su questa terra dovrebbe veramente sentirsi disperatamente solo, costretto ad essere un ammutolito abitante del buio: Questo libro è dedicato agli ammutoliti abitanti del buio, piccoli o adulti che siano, perché non c’è età che metta al riparo se non si viene visti né ascoltati, se non ci si sente almeno ogni tanto pensati“. (Stella Marina)


11  Febbraio  2021

Anne-Marie La Beltà 

di Yasmina Reza

 La locandina era affissa all’ingresso del teatro. In fondo c’era il mio nome. Ci passavo davanti sessanta volte al giorno. Salivo e scendevo rue du Calvaire per vedere che effetto faceva il nome di Anne-Marie Mille su un passante qualsiasi. Ero la penultima in fondo, in piccolo, ma mi si vedeva bene per via dello spazio sotto. Il nome dava nell’occhio, Soprattutto scendendo.  Anne-Marie Mille faceva tanto diva.“

C’è un palco nudo, spoglio, solo una sedia al centro. Nera, di un legno un po’ scrostato dall’uso che lascia intravedere venature più chiare. Sembra più viennese che parigina, i bistrot parigini usavano infatti sedie in rattan con bellissimi intrecci realizzati a mano. Questa sedia invece è interamente di legno, direi piuttosto sobria, dalle linee essenziali, quasi scomoda, senza braccioli, più da interno che da esterno. Ma la sua linea è elegante, i riflettori la illuminano e la rendono ancor più evidente. Ci è seduta una donna anziana, un po’ in carne, in pantofole, pantofole furlane fatte a Venezia, che parla e si racconta ininterrottamente come rivolgendosi a qualcuno. Pare rispondere a ipotetiche domande di intervistatori, ma forse loro non sono realmente presenti, sono forse fuori campo, si odono solo delle voci in sottofondo, sono solo sussurri. O forse invece c’è soltanto il silenzio attorno a quella voce e anche il pubblico sembra essere assente. Il silenzio e quella voce stanno raccontando insieme, per ricostruire la trama imperscrutabile di una vita. Collaborano per colmare i vuoti, mettendo in risalto la pura essenza di una esistenza.

La donna seduta si chiama Anne Marie, è nata a Saint-Sourd, nel nord della Francia, dove c’erano pozzi di carbone e la Compagnia teatrale di Prosper Ginot. Mentre racconta, ad Anne brillano ancora gli occhi, sono ricordi del suo passato prima di Parigi e prima di diventare attrice, quando ancora ritagliava dai settimanali le foto di Brigitte Bardot e quando sua madre le ricordava con una certa esplicita e cattiva derisione, che ci vuole la vocazione per fare certe cose.  Sono ricordi di privazioni amare ma anche di sogni ad occhi aperti. Ora le duole il ginocchio, è stata operata da poco, e il suo ginocchio è completamente di titanio. Usa un bastone per camminare, ma quello adesso non si vede, è poggiato da qualche parte nel buio del palco, nascosto alla vista. Forse non le servirà più, almeno così le ha detto il nuovo medico. Mentre parla, si ricorda anche di lei, di Giselle Fayolle, loro due hanno iniziato più o meno insieme al Théâtre de Clichy recitando in Berenice. Però l’amica ha avuto più successo di lei, aveva l’aria di una che non chiedeva mai niente e intanto “faceva man bassa di tutti i grandi ruoli“. Era molto bella e molto corteggiata, forse era anche stata l’amante di Alain Delon e di Ingmar Bergman. Anne era la sua confidente. Sono state unite per un certo periodo di tempo, anche se Giselle ha poi lasciato la vecchia e poco popolare compagnia teatrale, interrompendo, o forse sospendendo, l’amicizia con Anne. Si sono ritrovate da anziane, questa volta su linee quasi parallele, unite e rese più simili dalla vecchiaia, dalle esperienze della vita. Solo che poi Giselle è morta, così, all’improvviso, e Anne ne ha avuto notizia da un breve, essenziale trafiletto apparso un giorno su un quotidiano. Così va la vita, che poi ci pensa lei a rendere tutti uguali alla fine. In fondo la voce di Anne è ancora alla ricerca della propria identità, cerca le linee essenziali che l’hanno caratterizzata e il confronto con l’amica le fa emergere con maggior chiarezza, le fa riemergere in superficie dal passato. E’ vero, lei ha sposato un uomo noioso, ha avuto un figlio ugualmente noioso e spesso dispotico, ma ha avuto una vita piena, completamente appagata dal suo lavoro, da tutte quelle opere che lei leggeva sui libri per intero e che poi interpretava, mentre l’amica interpretava senza convinzione, e soprattutto senza talento. Ricorda, sempre dal centro della stanza mentre una luce gialla le illumina il volto solcato da una fitta, intensa rete di rughe, da dentro quella scatola sonora che è un teatro, lei racconta che non era il suo nome a venire per primo nelle locandine degli spettacoli, no, questo no, non è mai accaduto. La voce le si abbassa di tono mentre lo confessa, ma contemporaneamente si fa più calda, avvolgente, teatrale, mai amara o triste. Il suo nome era in fondo, ma si vedeva bene, per via dello spazio bianco che c’era sotto e che per contrasto, lo faceva risaltare. Insomma il suo nome dava nell’occhio, nonostante fosse tra gli ultimi.  Adesso il tono della voce le si è alzato e assorbe, mangia tutto il vuoto del teatro. Parla con orgoglio, con passione di Anne-Marie Mille.  Sembra in questo racconto senza interruzioni, finalmente svelarsi per la prima volta a se stessa; il confronto con l’amica le restituisce la chiara immagine di sé. La voce è calda, profonda, sicura, mentre ripercorre le luci e le ombre della ribalta, mentre ormai distaccata osserva quella ruota della fortuna che ha girato in ogni possibile direzione nella sua vita e in quella degli altri. Sì, adesso comincia a intuire, a comprendere che lei la vocazione per il suo lavoro ce l’ha avuta sempre nel sangue, e che lei non aveva fatto altro che seguirla. Capiva, e soprattutto sentiva quello che le era chiesto di interpretare. Ha sempre avuto una bellezza interiore, che poi mica tutti son capaci di apprezzarla quel tipo di bellezza lì! I ricordi si affollano nella sua mente, ingombranti, hanno urgenza di dire, di creare un cammino sul quale lei possa finalmente lasciarsi andare, allungarsi, ora che l’età tende a farle dimenticare i dettagli, i particolari e spesso, a confonderla. Le serve solo un filo e la sua voce per rimanere ancora indipendente, e che nessuno la interrompa proprio adesso, mentre ha deciso di riporre nell’armadio i suoi vecchi animali di cartapesta che si era portata con sé dalla casa dell’infanzia. Li mostra, in quei colori oramai sbiaditi: sono anche usurati in alcuni punti. Hanno viaggiato in una piccola valigia, assieme ad altre poche cose, dal nord della Francia per arrivare fino a Parigi. Sono stati la sua forza e la sua ostinazione. Nel teatro vuoto, in quel breve attimo di silenzio in cui lei deve per forza riprendere fiato, si odono mentre si muovono in quel loro leggero, impalpabile rumore di carta. Si distendono, si aprono mentre lei li muove come un burattinaio muove i suoi burattini. Respirano, tanto da sembrare vivi. In punta di piedi scendono dal palco e vanno ad occupare tutti i posti in platea. Si sistemano sulle loro poltroncine di velluto rosso, allungano le gambe e si mettono, attenti, in ascolto. Lei ha quasi finito di parlare, le luci sono più tenue, quasi in dissolvenza. Forse si sta per alzare, o forse si è già alzata, senza bisogno del suo bastone. Lei adesso è “Anne- Marie la beltà“, e basta questo per riempire  e dare senso ad una vita. Ha creduto nei suoi sogni, nel suo sogno più desiderato. Il teatro adesso è pieno e chiedono tutti il bis, la sedia nera è ancora al centro, forse non è neppure in stile viennese. Mi ricorda una sedia che anni fa ho visto in un caffè di Lisbona.

Anne forse tornerà...

La Reza è sempre molto brava, quasi mai delude.

                                                                         (STELLA MARINA)

11  Gennaio  2021

 Un tempo, un luogo.

Racconti di fotografia.

 Edizioni Contrasto

“Per quanto tempo è per sempre? A volte, solo un istante“.

E’ sempre importante scegliere accuratamente il primo libro dell’anno, segna un po’ l’andamento, il ritmo di tutto quello che verrà subito dopo, ha il potere di influenzare  tutte le letture che poi seguiranno. Quest’anno sono andata sul sicuro, scegliendo due grandi mie passioni: la letteratura e la fotografia. Un binomio che è spesso molto interessante. Alcuni di questi racconti li avevo già letti, sicuramente quello di Italo Calvino (L’avventura di un fotografo) e quello di Julio Cortázar (Le bave del diavolo). In questa raccolta “Un tempo, un luogo“ i racconti sono  undici, di undici diversi autori, ed hanno come soggetto una fotografia (o un fotografo)  attorno a cui è poi costruito tutto il racconto. Sappiamo come le storie possono essere racchiuse nelle immagini, come ben ci ha spiegato Italo Calvino nelle sue Lezioni americane, ed è su questo rapporto osmotico tra scrittura e visione che si basa questo bellissimo libro. Recuperare quel “potere di mettere a fuoco ad occhi chiusi“, di “pensare per immagini“ è l’imperativo assoluto di questa raccolta, il filo rosso che la tiene unita e che contemporaneamente la crea. Dopo aver terminato la lettura del libro , mi sono resa conto di non averlo affatto concluso; è talmente ricco di strade alternative, secondarie,  da poter percorrere in lungo e in largo, di deviazioni, di improvvise soste, che credo rimarrà ancora a lungo in lettura. E sarà un piacere, perché permette a chi lo legge, di recuperare appieno quella capacità di saper e poter immaginare, e mai come in questo momento ne abbiamo davvero bisogno, per reinventarci un mondo in cui sia ancora possibile vivere.              

La frase che ho riportato all’inizio tra virgolette, la conosciamo tutti ed è tratta dal libro di Lewis Carroll “Alice nel paese delle meraviglie“. Carroll è stato anche un appassionato fotografo oltre che uno scrittore. All’età di ventitré anni iniziò ad interessarsi di fotografia osservando con attenzione un suo zio fotografo al lavoro. I soggetti che più lo appassionarono furono le bambine, molto bello e famoso è quel ritratto fatto a Alice Liddell nel 1858, quella stessa Alice Liddell che ispirò l’autore per il suo romanzo più famoso.  Proprio di Carroll è il primo racconto, brevissimo e fulminante, quello che apre ed inaugura questa raccolta: “Fotografia stupefacente“ è il titolo ed è un omaggio alla  passione fotografica e  alla duttilità di questo nuovo mezzo artistico per avventurarsi  nell’immaginario. Il secondo racconto è datato 1883 ed è di Luigi Capuana, si intitola “Gelosia“. Luigi Capuana è stato un celebre scrittore e giornalista siciliano ed aprì nella sua città un  “Grande Atelier Fotografico“, luogo di sperimentazione  oltre che rifugio per l’artista. La fotografia sembra mostrargli, rendergli evidente quella interiorità dell’essere umano, non sempre così chiara e molto più complessa di quanto spesso appaia e si riveli.  Il racconto gioca proprio su questa complessità, su questa stravaganza del linguaggio fotografico che si diverte a scoprire quello che strenuamente ognuno di noi, senza eccezioni, tenta di nascondere ma anche di difendere. Il terzo racconto è un piccolo capolavoro di maestria, scritto da Arthur Conan Doyle nel 1891. “Uno scandalo in Boemia“. Da assistente del medico scozzese Joseph Bell, Doyle imparò la capacità dell’osservazione scrupolosa, esatta, precisa, quella che serve per fare una diagnosi il più possibile priva di errori. Quella stessa capacità lui la usò poi in letteratura per creare e far muovere il suo personaggio Sherlock Holmes. Il quarto racconto, datato 1926, è quello di Virginia Woolf, ed è interamente dedicato alla fotografa autodidatta Julia Margaret Cameron, sua prozia materna.  Un ritratto, a volte ironico, di una donna affascinante, determinata, immersa nell’atmosfera sognante dell’epoca vittoriana. Anche qui viene voglia di far qualche deviazione, soffermarsi per conoscerla meglio ma anche per scoprire la grande passione fotografica della stessa Virginia Woolf. Il quinto racconto, quello che mi ha fregato, “il piccolo fotografo“, 1952, è dell’autrice inglese Daphne Du Maurier. Mi ha fregato perché non mi aspettavo un racconto così bello, così ben composto, traendomi in inganno con le prime pagine apparentemente poco interessanti.  Devo ammettere che non la conoscevo molto come scrittrice, così mi son ritrovata a dover recuperare in fretta, correre ai ripari ordinando subito il libro scritto da Tatiana De Rosnay “Daphne“, a lei dedicato.  Che era bella lo sapevo, vi ricordate la copertina edizione inglese Penguin del libro “Tenera è la notte“,  di Francis Scott Fitzgerald? Quella bellissima ragazza bionda di appena diciannove anni? Sì, proprio lei, è la nostra Daphne. Il sesto racconto è di un maestro, oserei anche la maiuscola, ma sì, tributiamogliela tutta che se la merita ampiamente. Il racconto è del 1955, “ L’avventura di un fotografo “ e  fa parte della raccolta Gli amori difficili, quindi è quasi superfluo a questo punto  che io  dica il nome del Maestro, dirò solo quello del protagonista del racconto Antonio Paraggi. Vi ricordate di lui? Quel filosofo dell’arte fotografica per atteggiamento mentale che sentenziava: “ Per chi vuole recuperare tutto ciò che passa sotto i suoi occhi, - spiegava  Antonino anche se nessuno lo stava più a sentire, - l’unico modo d’agire con coerenza è di scattare almeno una foto al minuto, da quando apre gli occhi al mattino a quando va a dormire. Solo così i rotoli della pellicola impressionata costituiranno un fedele diario delle nostre giornate, senza che nulla resti escluso“. Ricordiamoci anche che il Maestro seguì a Parigi le lezioni di Roland Barthes e il laboratorio di analisi linguistica di Raymond Queneau. Anche qui ci sarebbe da soffermarsi per molto tempo, avventurandosi per strade meno conosciute, al cospetto di qualche interessantissimo fiore blu. Ma incalza il settimo racconto, che è un racconto perfetto di un autore perfetto, tanto che lo stesso Michelangelo Antonioni se ne è servito per il suo “Blow up“. Il racconto è del 1959, ed è dell’argentino di Julio Cortázar .  Ingrandire immagini fotografiche può portare a volte a rivelazioni pericolose, e non si saprà mai come raccontarle, “se in prima persona o in seconda, o usando la terza del plurale…”. L’ottavo racconto è di una scrittrice americana che io amo molto, Eudora Welty. Si intitola “Un tempo, un luogo“, ed è del 1971. Fu una fotografa professionista che amava fotografare le persone “perché erano reali e perché erano lì, di fronte a me. Ne registravo la vita“. Per lei il rapporto tra la letteratura e fotografia è sempre stato immediato, anche se poi per dedicarsi completamente alla scrittura smise di fotografare. Ma i suoi racconti, il suo modo di scrivere è anche e sempre fotografia. È ricerca di verità, di quel momento - o vogliamo dire “istante“ per riprendere quell’istante contenuto nella  breve frase di Lewis  Carroll ?- in cui la gente si rivela. E dopo quell’istante, c’è la necessità di scrivere la storia, perché di quella vita rimanga traccia, evidenza e quindi memoria.  Conviene comunque fermarsi prima di procedere, e andare a vedere con attenzione ogni sua fotografia, cercarla, e poi passare ai suoi bellissimi libri. Conviene davvero sostare con lei, e riflettere. Subito dopo c’è un racconto datato 1978, “I sudari di Veronica“, ed è un racconto pazzesco, pazzescamente scritto. L’autore è il francese Michel Tournier, e credo sia il racconto che ho amato di più, perché è terribile e congegnato alla perfezione. Tournier si avvicinò alla fotografia da giovane, condusse anche un programma televisivo sulla fotografia “Chambre Noire“ dedicato ai grandi maestri  come Man Ray, Brassaï, Kertèsz, Bill Brandt...Più tardi passò anche alla scrittura e devo dire che dopo questa esperienza di lettura , cercherò ogni suo scritto. Il racconto qui presentato è ambientato ad Arles ; attenzione però agli obiettivi delle macchine fotografiche.  Potrebbero diventare davvero pericolosi, come pericoloso potrebbe diventare chi si lasci sorprendere in modo parossistico dalla sua malìa . Il decimo racconto è noto, datato 1981, “ Mirino “ e fa parte di una famosa raccolta di un famosissimo scrittore di racconti americano, uno dei più grandi scrittori di racconti del Novecento.  La raccolta ha quel bel titolo che incuriosisce e attrae sempre molto “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore“: fotogrammi minimi di una realtà in quiete apparente. La raccolta si conclude con l’undicesimo, brevissimo racconto di un autore italiano del mio cuore. Lui ha sempre sostenuto, o meglio Pereira ha sempre sostenuto per lui , che la fotografia è uno strumento che scompone il tempo e ne fissa minimi e silenziosi istanti. Quegli stessi istanti di cui si è servito il pittore Hippolyte Bayard nel suo celebre autoritratto da annegato, una raffinata costruzione di finzione che è servita poi anche ad Antonio Tabucchi per scrivere “Una letterata ritrovata“, racconto contenuto nella sua raccolta “Racconti con figure“ del 2011. Anche qui si aprirebbero troppe strade, troppe diramazioni, una per Marina di Vecchiano che mi porterebbe, se chiudo gli occhi, su una spiaggia deserta di inizio ottobre, un’altra verso Parigi e forse incontrerei la maga o forse scoprire finalmente di essere io stessa la maga di Rayuela, l’altra strada, forse la più affascinante per me, in direzione di Lisbona. Saprei già dove andare, dove sedermi, quale libro scegliere, quale musica ascoltare, ma mentre io immagino davanti a vecchie e future fotografie possibili, in una lingua antica che mi parla di saudade, voi divertitevi, se volete, con questo viaggio immaginifico tra letteratura e fotografia, tra vita e possibilità di vita, scegliendo quei pochi istanti che vi faranno forse dire “per sempre“.   (STELLA   MARINA)


11  Dicembre  2020

LE MANI PICCOLE

di Andrés Barba

  

Ho iniziato a conoscere lo scrittore spagnolo Andrés Barba con il suo libro la “Repubblica luminosa“ pubblicato in Spagna nel 2017 e tradotto in Italia per La nave di Teseo nel 2018 da Pino Cacucci. Già con la lettura di quel libro ero rimasta Piaciuto davvero molto! Bravissimo Andrés Barba.molto colpita dalla capacità dell’autore di trattare un argomento così complesso come può essere quello dell’infanzia e riuscire ad avvicinarsi a quel mondo spesso segreto e insondabile con una attenzione profonda e disincantata, e soprattutto con grande rispetto. Già Michele Mari ci aveva avvertiti, quasi ammoniti – e non soltanto lui, naturalmente – che l’infanzia può essere anche sanguinosa: “Tu, sanguinosa infanzia“. Nel complesso il libro di Andrés Barba mi era piaciuto molto, con qualche sporadica riserva per alcune pagine. Questa volta però l’autore con questo suo “Le mani piccole“ è andato ben oltre le mie aspettative. Pubblicato quest’anno dalla Nave di Teseo, nel mese di novembre, sempre con la traduzione di Pino Cacucci, è un libro che in Spagna è uscito nel 2008, quindi prima di “Repubblica Luminosa“ che è del 2017. Constatare questo mi ha creato alcune perplessità perché ho trovato “Le mani piccole“ un lavoro perfetto e lo avrei considerato, evidentemente sbagliando, successivo all’altro; un’elaborazione più precisa, più limata, senza sbavature. Un racconto lungo in tre parti – per me è un racconto, non so se invece sia considerato un romanzo - che funziona meravigliosamente bene, che si legge senza interruzioni, e proprio per questo arriva dritto dritto senza alcuna deviazione là dove deve arrivare, tra mente e cuore: ha la potenza esplosiva di un racconto eseguito alla perfezione. Doveva mettermi in guardia la fotografia in copertina, la fissità vitrea di quello sguardo in contrasto con il roseo candore di un volto infantile, forse di bambola. La fissità di un sorriso incapace di provare emozioni, o forse, che non vuole più provarne, e che può essere mite o inquietante a seconda dello stato d’animo di chi lo osserva. Ma all’immagine di copertina ci ho ripensato dopo, a lettura conclusa e l’ho trovata perfetta!

Il racconto inizia subito con un incidente stradale, mortale. In una famiglia composta da tre persone, si salva solo la bambina di nove anni. Il trauma per lei sarà enorme, insostenibile. Inesprimibile. Una bambina di quell’età non può possedere ancora gli strumenti per elaborare un lutto così devastante. Non avendo parenti a cui affidarla, viene messa in un orfanatrofio assieme ad altre bambine della sua età. E’ con la differenza che c’è tra lei e loro - il mondo conosciuto da lei è completamente estraneo alle altre cresciute sempre all’interno dell’istituto -, che si crea la dinamica, il movimento del racconto, tra attrazione e repulsione, affetto e odio, seduzione e fragilità. Con la memoria devastata da quel silenzio dopo la tragedia e da una sete implacabile che come filo esilissimo la lega alla vita, “un’acqua astratta che si fa corpo solido“, lei ricomincia la sua seconda vita, da sola. Anche il suo nome odora di acqua, lei si chiama Marina. Una psicologa le regala una bambola, che guarda caso ha il suo stesso nome, e come lei si “romperà“. Due Marine fragili, con ferite, una di carne l’altra un giocattolo, ma un giocattolo capace di trasformarsi in fedele compagna per un gioco tremendamente vero. Un gioco diverso da quello che conoscono le altre bambine dell’orfanatrofio, abituate a muoversi su un terreno conosciuto, stabile, a saltare con la corda sulla sabbia, o a nascondersi dietro gli alberi nell’attesa di essere scoperte. Il secondo capitolo inizia con il punto di vista di queste bambine, alle quali viene data la notizia che c’è una nuova ospite tra loro e che dovrà essere ben accolta. Un elemento “diverso“ entrerà a far parte della loro piccola comunità alterandone gli equilibri e i punti di vista. L’immaginazione creerà differenze, chiederà allo sguardo di adattarsi al cambiamento, infrangerà e spezzerà la solidità del gruppo. Innescherà comportamenti di difesa e di attacco, una guerra sottile, spesso inconsapevole ma feroce verso quella bambina così “simile“ ma anche così diversa da loro, quella bambina con “occhi da bambina oscura“, insondabile e impenetrabile, sempre in compagnia della sua bambola, una bambola troppo simile a lei, tanto da sembrare animata e con la sua stessa dolorosa sete. Una bambola con gli “occhi rotti“ e Marina spiegherà alle altre, in un linguaggio per loro poco chiaro , che proprio per questo la bambola non è più in grado di chiuderli , è necessario  leccarglieli con la lingua perché lei possa  tornare a vedere di nuovo. Marina porta - come unica conseguenza fisica di quell’incidente -, una cicatrice sulla spalla, e le cicatrici non sono ben viste in quel mondo protetto di bambine, le costringono a raffrontarsi troppo presto con se stesse, con il corpo e con la loro vita. Le sospingono troppo oltre la loro visione del mondo e solo quando dormono, quando si addormentano, riescono a conquistare un aspetto di “predatori dormienti“, una loro unicità, che Marina osserva con molta attenzione , ogni notte . Si alza di proposito per osservarle una ad una e ognuna le appare diversa, e proprio per questo, davvero bella, mentre di giorno sono tutte uguali, un piccolo esercito schierato nella solidità delle azioni e dei pensieri. Ma l’attrazione reciproca si fa portavoce di momentanee tregue, di perdoni improvvisi, di quasi amore. Peccato solo per quella sua vita “prima“ di loro, così dura da comprendere e da accettare che sprigiona un risentimento violento, un furore simile all’odio che si inasprisce sull‘orgoglio ostinato di Marina, mai completamente accessibile, mai davvero vinta dalle altre. Mai simile, mai amica. Anche lei si scopre così diversa solo con il diretto raffrontarsi, prima era semplicemente una bambina, figlia di genitori che la amavano e la proteggevano dal resto del mondo. Adesso però è da sola, il mondo va conquistato, le ferite vanno tenute nascoste perché nessuno le vuole e non sono amate, spaventano, incutono paura, quindi bisogna imparare a sedurre, ad avere quel potere lì, conquistarsi il dominio perché quei due mondi, così simili, così vicini ma così diversi, possano finalmente compenetrarsi. E lei possa venir accettata, possa entrare dentro il cerchio. Così inizia il gioco, “quel gioco“ che Marina ha ideato: “Il gioco è molto facile e dura vari giorni, perché ogni giorno ognuna di noi è il gioco. E ogni giorno è diverso.“ Ognuna di loro, e soltanto per una notte, diventerà, si trasformerà per tutte le altre, in una bambola. Immobile, senza opporre resistenza alcuna, si lascerà vestire, truccare, toccare, riceverà le confidenze, i segreti di ognuna di loro senza batter ciglio. Tutte saranno così costrette a “svelarsi“, inermi e impotenti. Saranno nude, e sole. Saranno come bambole nel sonno con le labbra tinte di rosso. Ma non illudetevi, i giochi dei bambini non sono mai così innocenti. Possono diventare molto crudeli, a volte.

Piaciuto davvero molto! Bravissimo Andrés Barba.                            (Stella  Marina)

 

11  Novembre  2020

Cose che succedono la notte

di Peter Cameron

 

Ammetto subito la mia poca conoscenza di Peter Cameron, e probabilmente questo è il suo primo romanzo che leggo. Quindi, ogni cosa che dirò da adesso in poi, potrebbe venir tranquillamente smentita non appena mi addentrerò nella lettura di altri suoi libri e imparerò a conoscerlo meglio. Per adesso però mi baserò solo su quello che ho appreso di lui e della sua scrittura con questo “What Happens at Night“.   

In copertina dell’edizione italiana Adelphi, una fotografia di Gregory Halpern tratta dal progetto Confederate Monns. Notte, addensamento di nuvole, la luna già alta nel cielo, piccola e luminosa, che rischiara in parte un buio altrimenti profondo. Colore prevalente; nero. Infatti la narrazione inizia con un viaggio in treno di sera, marito e moglie in una carrozza “d’altri tempi“ che attraversando la tundra devono raggiungere il Grande Nord. Partiti da New York, sono in viaggio già da diversi giorni perché la terra dove sono diretti sembra davvero essere ai confini del mondo, l’estremo Nord di un paese nordico. Quello che colpisce subito è proprio questa oscurità, questa poca vicinanza tra la coppia, questo crepuscolo affettivo che sembra avvolgerli in una distanza difficile da abbattere. La donna guarda il suo riflesso nel finestrino, legge un libro sulla prima o seconda guerra mondiale, parla poco e risponde svogliatamente, con un certo risentimento mal trattenuto. Lui sembra essere più gentile, più disposto al dialogo. Il treno si ferma ad una stazione che pare una stazione di transito, ma che poi risulterà essere la vera fermata alla quale la coppia dovrà precipitosamente scendere. Lui in anticipo rispetto a lei, lei di corsa saltando quasi dal treno e lanciando le valigie fuori dalla porta. Intorno a loro solo buio, notte e neve. E un paese straniero assolutamente sconosciuto e inospitale.  L’amore, l’affetto, la complicità sembrano sepolti dentro quella neve che continua a cadere ininterrottamente, decisa a ricoprire ogni cosa, ogni più piccolo indizio, dettaglio, traccia, perfino i loro stessi nomi. Solo la meta sembra essere ancora certa: Il Borgarfijaroasysla Grand Imperial Hotel. Però c’è un momento, poco prima di salire su di un taxi per raggiungere l’albergo - ogni buon lettore ci salirà, ovviamente - di struggente, grande bellezza. Quasi l’immagine invincibile e insuperabile dell’amore che il silenzio della notte esalta e rende perfetto. Durerà un solo istante, per sparire quasi subito: la donna illuminata dalla luce tenue di un lampione che la rende bellissima, l’uomo in ginocchio di fronte a lei, emozionato e grato, in lacrime. E’ un momento che mi ha ripagato di qualche difficoltà iniziale, di qualche frase di troppo che non avevo molto gradito. Ma insistere, a volte, aiuta!

Poi l’albergo, il punto di arrivo e di snodo del romanzo. La hall buia, una moquette a motivi arzigogolati, lanterne dentro enormi grifoni di bronzo ad illuminare il bancone di legno della reception. La chiave della loro camera, la 519, posta al quinto piano, nella “cupa magnificenza“ dell’albergo. Una stanza fredda, decorata con finti mattoni, solo il bagno, grande e lungo, tutto completamente ricoperto di mattonelle rosa, sembra sospendere una severità fredda e angosciante. I toni di luce sono fondamentali in questo romanzo. Sono inquadrature brevi, rapide, che aprono piccoli squarci nella densità oscura e tesa della narrazione. Sono come vie di fuga, pause, visioni che potrebbero quasi essere immaginarie o immaginate, brevi tregue tra una coppia che cerca ancora un punto di congiunzione quasi ormai irraggiungibile. Una piccola guerra silenziosa, sconosciuta e invasiva. Dialoghi che cercano l’intensità di un tono, il punto esatto di autenticità, mentre le voci scorrono quasi senza toccarsi ed hanno bisogno di altre presenze per provare ad esprimersi, a definirsi. Il fatto di avere uno scopo comune, un progetto possibile di vita ancora insieme, non sembra venir loro in soccorso. Sono venuti in questa terra così lontana e respingente, per adottare un bambino. Ma tutto sembra sfuggire loro di mano, destinato a infrangersi in una realtà ostile ma per certi versi anche piena di misterioso fascino. Anime in un limbo di stupefacenti apparizioni, volte a sondare la reale consistenza di un proposito, di un sentimento, di un’idea. Sembrano incontrarsi, fondersi per pochi attimi per poi venir distratte dalla contingenza di una realtà piena di mistero, di luce fragile, quasi teatrale. Le apparizioni di un barista alto e scuro, dai tratti vagamente asiatici, di una anziana signora, ancora sensuale e ornata di pailette da palcoscenico, con capelli lunghi grigio-argento, un angelo nero che soccorre e devia, di un guaritore, fratello Emmanuel, un angekok, di un uomo d’affari privo di scrupoli e violento, di un tassista ambiguo; tutti loro sono continui ostacoli per la coppia, per poter ritrovare una comunione di intenti e una sintonia. Ognuno di loro creerà strade alternative, vie di fuga, per non farli più incontrare davvero: non sarà più concesso loro quel meraviglioso e profondo legame di intesa, di complicità, che spesso l’amore regala, illudendo chi ne è toccato di vivere in una sorta di simbiosi. L’immobilità e il silenzio avvolgono sempre di più, sempre più da vicino marito e moglie, la luce intorno a loro è sempre un po’ opaca, ama soffermarsi su dettagli esteriori, indugiare su carta da parati, mattonelle, lampade, bicchieri, ombre. Sembra divertirsi a creare atmosfere, stati d’animo improvvisi, a spalancare possibilità non contemplate, intriganti e pericolose, quasi premesse per   incubi inattesi. Il dolore, la morte, la malattia sono lì, a portata di mano, e incombono di continuo. L’amore velato da un vapore tiepido, inconsistente, il corpo magro di una donna malata di cancro che cerca ancora la miracolosa possibilità di vivere, e un uomo incapace di soccorrerla. Il sesso disperato strappo sulla veste logora della comunicabilità, dell’empatia. Un figlio come passaggio verso l’abbandono, forse dono di definitiva tregua e chissà, finalmente perdono. Lei verso la conquista di una pace interiore, di una pace con il proprio corpo, e con il resto del mondo. Lui, spinto e sospinto alla discesa verso il centro di sé, finalmente a sbrogliare vecchie cose in sospeso con se stesso. Mentre la neve continua a scendere, incontenibile, ognuno di loro due cerca la propria “cura“. Qualcosa che possa curare dai mali del mondo, dai sentimenti, dalle relazioni, e perfino dal silenzio. Qualcuno che sia ancora capace di carezzare le loro fragilità, di emanare un calore autentico che li riscaldi da quel loro freddo interiore. Ci sarà un viaggio di ritorno, dopo aver attraversato il grande buio, sul medesimo treno dell’andata, ma viaggiando al contrario questa volta la carrozza sarà scaldata dai raggi del sole. Un sole alto e nuovo, ad inondare di luce un uomo e un bambino, l’uomo e il suo bambino, Simon…

Qualcosa di questo romanzo mi rimarrà, sicuramente la luce, i toni di luce, l’atmosfera, la neve che incessantemente cade e riflette le ombre della notte,  ma che riflette anche la possibilità del giorno, di un nuovo giorno. Forse.                                                                              (STELLA MARINA)

11  Ottobre  2020

LA CASA SUL LAGO

di David James Poissant.

Prima di iniziare a parlare del libro, la bellissima dedica dell’autore: “Ai miei genitori, che mi hanno dato l’acqua e a Marla, che mi ha insegnato a nuotare“. Poi l’immagine di copertina: un bambino in acqua che guarda davanti a sé. La fotografia è del fotografo Fredrik Broden che vive e lavora a Dallas. In questa fotografia ci sono già gli elementi fondamentali di questo romanzo: acqua- bambino- vita- morte-sospensione. Il bambino guarda forse verso l’orizzonte, forse verso la barca da cui si è tuffato per nuotare, forse si è spinto troppo a largo e ha paura. E’ immobile, con la bocca leggermente aperta, solo alcune gocce d’acqua che scendono dai suoi capelli e che rendono viva l’immagine, sembra quasi di sentire il loro sottile, impercettibile rumore mentre si lasciano scivolare nuovamente in acqua. Questo bambino è stupito, ha paura, o semplicemente si gode la bella giornata di sole nuotando a largo? Qualcosa sembra stia per accadere davanti al suo sguardo o, forse, è appena accaduto …

C’è un po’ la medesima sensazione di sospensione all’inizio del romanzo, questa attesa di un evento che sembra muoversi sulla superficie dell’acqua e che potrebbe cambiare il corso delle cose. Il perturbante che sale all’improvviso dalla quiete di un giorno qualsiasi e che potrebbe inghiottire tutto quello che incontra lungo il suo percorso. Ogni personaggio in realtà, verrà toccato da questo cambiamento inatteso, dalla piega amara e dolorosa di un giorno estivo apparentemente tranquillo presso il Lake Christopher. “Una mattina sul lago con panini e nuotate“, una giornata dunque di vacanza, per “ celebrare “ l’addio ad una casa che la famiglia Starling ha deciso di vendere dopo molti anni. Una giornata con la famiglia riunita per l’occasione, non tutti ugualmente felici della decisione presa dai genitori di lasciare la casa che è stata la casa di vacanze per tantissimi anni. C’è un bambino che ride su una barca vicino alla loro, la loro barca si chiama “The Sea Low“, una piccola barca a sei posti con la scritta dipinta a mano con una vernice azzurra da interni, mentre quella del bambino e della sua famiglia si chiama “Tha Party Barge“, ed è una Avalon Ambassador, un barcone spropositato per un lago così silenzioso, per un luogo così tranquillo, segno che i tempi sono tristemente cambiati. Il cielo è a chiazze, color peltro, forse pioverà. Quel bambino ha i braccioli arancioni, l’aria strafottente, avrà quattro, cinque anni. Mangia delle patatine a cavalcioni del motore, sembra volerlo cavalcare. A un certo punto si alza, e cade in mare. Non sa nuotare, i braccioli gli scivolano dalle braccia. “A che velocità affonda un corpo“? Ali arancioni vorticano nella corrente. Tutto sta per cambiare sulla superficie tranquilla e misteriosa del lago…

La famiglia Starling è formata da quattro persone, i genitori Lisa e Richard, i figli Thad di trent’anni e Michael, con qualche anno in più di Thad. Michael è sposato con Diane, e Thad vive una relazione complessa con Jake, un artista giovane già molto affermato. Niente è semplice né scontato nelle reciproche relazioni, tutto è complesso e tutto verrà alla luce presso il Lake Christopher. Momento epifanico di confessioni, di svelamenti, di perdite, di ricongiungimenti. Molto dolore, sotto l’apparente tranquillità della vita. Quella morte improvvisa, inattesa e sconvolgente di un bambino, servirà ad ognuno di loro per confrontarsi con la propria esistenza. Ogni capitolo cercherà di indagare, di far luce sulle loro vite; verranno, appariranno a noi sempre più fragili, sempre più umani, incrinati dalle esperienze. In una solitudine che ha bisogno di vuoto, di silenzio prima di potersi ricongiungere alla vita.

“Mentre gli stringe la mano capisce che la settimana sarà lunga e piena di ultime cose: ultima nuotata nel lago, ultima partita a ferri di cavallo sul prato, ultima notte a guardare la luna che scala il cielo, una stella dolo l’altra“.

Acqua, luna, vento. C’è qualcosa di magico al Lake Christopher. Il ricongiungimento con un ‘epoca felice può dare la forza, il coraggio di affrontare la complessità della vita. Una casa può trattenere dentro di sé, il calore e la protezione di tempi “leggeri“, in cui l’amore sembrava una questione semplice e naturale, sempre appagante. In cui tutto era ancora possibilità. In cui appunto è facile far risuonare quel bellissimo “ai miei genitori, che mi hanno dato l’acqua“. Poi certo, la vita, l’esperienza individuale della vita. E gli incontri. E gli attimi di sospensione che turbinano per qualche frazione di secondo prima di farsi esistenza. Bisogna imparare a nuotare, a conoscere l’acqua, ed aver fortuna negli incontri. Mi torna in mente il bellissimo discorso che David Foster Wallace tenne per il conferimento delle lauree al Kenyon College, il 21 maggio del 2005. Iniziava così: “Ci sono due giovani pesci che nuotano a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: - Salve, ragazzi. Com’è l’acqua? – I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa:- Che cavolo è l’acqua?“

David James Poissant mi aveva già conquistato con la sua raccolta di racconti, “Il Paradiso degli animali“, uscito sempre per NNE, nel 2015. Questo suo primo romanzo me lo riconferma grande scrittore, da seguire con attenzione.

“Le stelle non sono mappe, è l’uomo che le ha organizzate così. Non dicono il futuro, né dove andare né come, o cosa viene dopo. No, le stelle che vede hanno liberato la loro luce anni prima, luce che ha viaggiato decenni, secoli, per raggiungere questo telescopio. Il futuro è davanti a loro, sconosciuto, invisibile. E forse non sapere è un dono.“

                                                                         (Stella Marina)

11  Settembre  2020

Il weekend                

di  Charlotte  Wood.

 In Aequilibrium: Aequus –Libra, sopra “quel ricco, osceno, ingiusto, devastato, bellissimo mondo“, che poi è questo mondo, che poi è questa vita. La nostra incerta, sottile, segreta, fragile, potente, unica vita. Ed è quello che sentiamo leggendo questo romanzo di Charlotte Wood, la difficoltà a rimanere sempre in equilibrio, e tenere uniti quei fili che ci consentono di non cadere, di bilanciare i passi della caduta, della perdita, della solitudine, dell’abbandono, del dolore, di ogni possibile fallimento.

Il romanzo è ambientato in Australia, in una località balneare chiamata (o che l’autrice chiama ...)   Bittoes, diventata da alcuni anni di moda, dove tre amiche di settanta anni e amiche da più di quaranta anni, si ritrovano per svuotare e ripulire la casa di vacanza e di proprietà di una loro amica, Sylvie, venuta a mancare da circa un anno. La casa è per tutte loro un luogo di ricordi, di confronto con il passato, è memoria e specchio. E’ relazione, ma soprattutto è quella loro vecchia amicizia che le lega da tantissimo tempo, sempre importante, sempre diversa, mai scontata. Sempre da riscoprire e da mettere alla prova. Sempre complicata, così come ogni sentimento profondo. E la morte, che all’improvviso irrompe in questo quartetto di amiche, arriva e ne muta il significato, lo complica, lo altera, fino a stravolgerlo: “Di una cosa nessuno parlava mai: di quanto la morte potesse rendere meschine le persone. E del fatto che dopo un lutto bisognasse ricalibrare le amicizie muovendosi intorno al vuoto lasciato da chi non c’era più, e di come tutt’a un tratto non si sapeva più come stare insieme “.  Non si sapeva più come tare insieme… !

Ricalibrare è il verbo esatto di questo romanzo. Che è appunto un regolare più esattamente, un riequilibrare. Le tre donne, Jude, Wendy e Adele, ricalibrano la loro vita dopo la scomparsa dell’amica che ha aperto “strane voragini“ tra loro. Ognuna di loro si confronta con la propria esistenza, e con il significato dell’amicizia, dell’amore, dell’abbandono. La loro amicizia adesso è quella in cui il tempo sembra muoversi verso l’alto e verso il basso, e non più avanti o indietro; “il passato screziava il corpo, lo permeava insinuandosi nel passato e nel futuro. Quelle screziature erano evidenti- strati di ricordi, di esperienze – e tutte concentrate in un solo essere. Guardando avanti o indietro, non si scorgeva altro che il vuoto.“

Ed ecco il vuoto, il confronto implacabile con il vuoto. In un’età in cui ogni cosa ha preso forma ed è già accaduta. I personali equilibri si basano sulla convivenza più o meno pacifica con il passato, con sottili rancori. Non potrebbero essere più diverse tra di loro Jude, Wendy , Adele, e adesso, dopo l’assenza di Sylvie , pilastro e baricentro del piccolo gruppo, le differenze appaiono sempre più incolmabili, sempre meno tollerabili, fin quasi a sfociare in moti di pura rabbia dentro quella casa che sembra a volte contenerle ma, più spesso, respingerle. Il carrello arrugginito, una specie di montacarichi per raggiungere l’abitazione, le vecchie pareti sempre più umide gli oggetti abbandonati al silenzio e all’usura del tempo, all’inutilità, i gradini traballanti, tutto sembra sull’orlo del collasso, come le vite di ognuna di loro. Solo Adele, attrice di professione, appare l’unica in grado di prendere le cose con maggior leggerezza, abituata a svuotarsi di sé, per interpretare ogni possibile ruolo. E svelare quegli intimi segreti che aprono distanze quasi incolmabili tra di loro, e che ognuna custodisce con tenacia dentro di sé, perché aprire certe porte è molto doloroso, e spesso, quasi impossibile. Tutto sembra muoversi troppo velocemente tutt’intorno, e aggrapparsi al proprio passato sembra apparentemente l’unica possibile salvezza. Ma il passato è mutevole, presenta insospettabili vicoli ciechi, insospettabili sorprese. Tradisce le aspettative di chi lo osserva e lo vorrebbe immutabile. E a volte, sogghignando, si fa nuovamente presente, con tutte le conseguenze possibili.

L’Oceano in sottofondo, l’acqua liberatrice e purificatrice, l’acqua che cura con il suo bagliore argentato. E rende i loro corpi, “nudi“, trasparenti, portando in trasparenza appunto, le loro fragilità. Ognuna forse per la prima volta riesce a scorgere l’essenza vulnerabile delle altre, constatando che non c’è differenza tra di loro, sono così simili, così forgiate dall’esperienze della vita. Non resta che allungare la mano, trovarsi e “scegliersi“ ancora, dopo tanti anni, e questa volta per essere davvero insieme, “in attesa della prossima onda“. Per “vederle“ queste magnifiche settantenni, basta concentrarsi sulla bellissima immagine di copertina (John Tiedemann); sono fiere, sorridenti, tenaci, e soprattutto, amiche! Ce le ricorderemo a lungo…                                    ( STELLA  MARINA)


11  Agosto  2020

LA CASA DEI GUNNER 

di Rebecca Kauffman

Nadia Fusini nell’ introduzione al libro “Le onde“ di Virginia Woolf, parla del tempo. Le onde è un libro sul tempo, e i personaggi sono insidiati “dal negativo di un’assenza“ che è puro vuoto, “in cui essi stanno come dei bambini in un mondo convesso, dal quale facilmente potrebbero cadere“. Questa idea del tempo convesso mi è subito tornata in mente leggendo questo libro della scrittrice americana Rebecca Kauffman che ha costruito il suo romanzo proprio sull’idea di tempo convesso e dal negativo di un’assenza che è puro vuoto. Anche qui, come nel romanzo della Woolf, sei amici legati da un’amicizia nata nell’infanzia, attraversano diversi anni della loro vita fino ad arrivare agli anni della quasi maturità, a quegli anni in cui si iniziano a fare i conti con il proprio passato, anni di bilanci, nei quali si inizia a voltarsi indietro per vedere la forma che ha preso la propria vita e se, in qualche modo, è riuscita ad aderire ai propri sogni. “Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò o altri vedranno una cicogna ?“, scriveva Karen Blixen….               Chissà quale sarà il disegno finale di ciascuna di queste sei vite che ci ha narrato Rebecca Kauffman. Forse sarà facile intuirlo, perché man mano che il racconto cresce, noi abbiamo imparato a conoscere questi sei amici di infanzia, che hanno suggellato tra loro, implicitamente, quel sacro e fraterno patto di amicizia che dovrebbe poi riuscire a durare, a perdurare, per tutta la vita. Abitavano tutti nella stessa strada: Mikey, Alice, Sally, Lynn, Jimmy e Sam, nella periferia sud di Buffalo, a nord dello stato di New York. All’età di sei anni, si incontrano, diventano un gruppo, si “alleano“ per far fronte alla vita, diventando inseparabili, e si insediano nella casa abbandonata Gunner, che diventa il loro ritrovo quotidiano, “e una scusa per allontanarsi dalla propria casa per un po’“. Ne arredano una stanza, con mobili trovati, recuperati per strada. Anch’io, con alcuni amici, quando ero piccola, avevo la mia casa dei Gunner. Me la ricordo ancora perfettamente; non aveva neppure un vetro integro, era piena di calcinacci, di umidità, ma a me pareva bellissima. Rappresentava il mio momento di ribellione, di indipendenza, di scoperta, di vita segreta. Rappresentava libertà, amicizia profonda, ideale costruzione di un mondo. Era un gioco serissimo al quale ripenso con profonda nostalgia. Era un tempo concavo, apparentemente senza pericoli, eppure avrebbe potuto contrarsi improvvisamente, trasformandosi in un tempo insidioso, minaccioso, pericoloso.                 Per questi sei amici, lentamente, ma inesorabilmente, questo tempo diventerà un tempo minaccioso. Non subito, ma nel passaggio dell’adolescenza, quando Sally… “Sally ha patito troppo, Sally ha già visto che cosa Ti può crollare addosso“, come ha scritto per noi il grande Vasco. A causa di Sally, per tutti loro, il mondo diventerà convesso, si contrarrà, imprimendo nelle loro vite un cambiamento, apparentemente invisibile, apparentemente insignificante. Eppure… Nessuno potrà dimenticarsi di lei, e attraverso la sua assenza, riusciranno a guardare nuovamente alla propria esistenza. “Da bambini, i Gunners non potevano immaginare che, raggiunti i sedici anni, una di loro avrebbe voltato le spalle agli altri e che il gruppo sarebbe rimasto talmente spaccato da quella perdita, da quell’improvvisa e inspiegabile assenza, che nel giro di poche settimane anche le altre amicizie si sarebbero sciolte, gettando ciascuno dei membri in una solitudine buia e confusa.” Eccoci dentro quel “negativo di un’assenza“, nella sua insidia, che ha la capacità di contrarre il tempo, rendendolo un tempo pericoloso, dove ogni piccolo segreto, all’improvviso riesce ad affiorare alla luce e a colpire, con forza, in profondità. L’assenza di quella che era stata una bambina magra, dai capelli argentati, fragile e bellissima, cambierà tutto all’interno di quell’uniforme, compatto, gruppo di amici, ognuno si ritroverà da solo, per la prima volta, ognuno di loro sarà solo, e “potrà cadere“. Basterà una mailing list a mantenere viva tra loro l’amicizia? A colmare il vuoto? A rispondere a delle domande mai completamente formulate? Perché Sally se ne era andata e aveva chiuso improvvisamente con tutti loro? Perché nessuno era riuscito a trattenerla, a farla parlare? Ad aiutarla, forse? Lei intanto sarà sempre più lontana, assente, fino alla totale, definitiva scomparsa. Basterà un funerale a far luce sul passato? Riuscirà quell’evento tragico a riunire nuovamente tutti gli amici? E come? A quale prezzo? Ci sarà qualcuno, come Mikey , che pagherà il conto più alto per questa assenza, Mikey, al quale ogni lettore vorrà un sacco di bene, perché lui è il solo ad esser nato dentro una valigia foderata di un morbido pelo blu. Lui che è l’immagine speculare di Sally, e a lei sarà legato per tutta la vita, più di tutti gli altri. Perché già loro due si erano scelti,prima di tutti gli altri, riconosciuti,e in uno strano modo, anche amati. Gli errori, i limiti, dei loro genitori graveranno sulle loro due vite, ne imprimeranno il passo. Ognuno di loro due, reagirà al dolore in modo diverso, ma tutti e due ne saranno travolti, sentiranno la pesantezza del vuoto, dell’assenza, senza essere capaci di comprenderne appieno le conseguenze.     La scomparsa di Sally aprirà per tutti gli amici i vecchi conti lasciati in sospeso con il passato, ogni ferita dell’infanzia, che come chiama Michele Mari, è una “sanguinosa infanzia“. Eppure, “se vuoi vedere l’arcobaleno, devi guardare attraverso la pioggia “. E ognuno di loro, riuscirà a guardare attraverso la pioggia, perché la forza dell’amicizia riuscirà a vincere sul dolore, a rendere il dolore meno doloroso, meno invincibile. Che bello sapere che Rebecca Kauffman suona il violino, mi sembra di sentirla proprio adesso, mentre guardo questa pioggia cadere lentamente sul verde del prato che assume sfumature brillanti, iridescenti. 

                                                                       (Stella Marina)                                                          


11  Luglio  2020

Lo scarafaggio
di Ian McEwan

“Indietro non si torna…perché sì.“
Non ci si aspetti un capolavoro da questo libro, perché non lo è. Ma nemmeno una delusione totale, come era accaduto, almeno per me, con alcuni dei suoi ultimi libri. E’ un libro che si legge in brevissimo tempo, qualche ora, ed è, a tratti, anche molto divertente. La perplessità principale, che mi aveva inizialmente fatto desistere dall’acquistarlo, derivava proprio dal titolo e dall’allusione, senza ombra di dubbio, al più che celebre racconto di Franz Kafka. Lo spunto c’è, come ben evidenzia anche la copertina con l’illustrazione di Manfredi Ciminale. Ma rimane solo un piccolo omaggio, una amara considerazione politica, un punto di partenza al rovescio, dove uno scarafaggio di nome Jim Sams, “un tipo perspicace ma niente affatto profondo“, si trasforma rapidamente in un essere umano, anzi, si trasformerà nel primo ministro inglese per dare corpo e anima al suo piano di Inversionismo politico.
L’allusione alla Brexit è più che evidente, come evidenti sono i riferimenti ai personaggi pubblici, presidenti e ministri che governano, ahimè, il nostro mondo. “Con la Brexit“, lui esplicita nella postfazione, “qualcosa di orrendo e di innaturale si è insinuato nello spirito della nostra politica e mi è sembrato perciò ragionevole ricorrere all’immagine dello scarafaggio, un essere ripugnante e detestatissimo“. Ed è per questo che, un essere detestatissimo, all’improvviso può però trasformarsi in un ministro e diventare l’uomo più potente d’Inghilterra. Può, perché oggi esistono le condizioni perché questo sia facile e possibile, e non soltanto in Inghilterra, purtroppo. Piccoli scarafaggi che all’improvviso si elevano a condottieri e riformatori, senza che nessuno sia veramente in grado di contrastarli, figuriamoci poi fermarli. Perché trionfa l’akrasia, l’incapacità di agire secondo criteri ragionevoli, e aggiungerei, l’incapacità in generale, e trionfa con sfacciata ostentazione quel “perché sì“. E questo rende verosimile, fin troppo, l’incarnazione improvvisa di uno scarafaggio in un primo ministro. Tale scarafaggio non avrà alcuna difficoltà ad affrontare questo cambiamento, e si troverà assolutamente a suo agio nella sua nuova posizione eretta, nonostante l’iniziale vertiginoso ondeggiamento, nello sforzo di rieducare lo sguardo, imparando a muovere gli occhi e ad abituare la mani al tatto. E a ricoprirsi di quegli abiti che il suo corpo, poco prima di un perfetto marrone lucente, non avrebbe mai immaginato di dover e poter indossare. Ma la causa dell’Inversionismo è capace di far miracoli, e di farlo ritrovare all’improvviso niente meno che nella Sala del Gabinetto di Londra, al numero 10 di Downing Street, nella City di Westminister, in qualità di Primo Ministro. Ed ecco Jim Sams, nato da un ricordo letterario di Gregor Samsa, anche lui proveniente da sonni agitati, ma destinato ad avere diversa sorte, per non dire perfettamente opposta: una brillante, immeritata, rapida carriera politica. “Il destino collettivo veniva forgiato nella fucina di quel Gabinetto e del suo quieto impeto. L’Inversionismo duro era maggioranza. Troppo tardi ormai, per tornare indietro.“
Troppo tardi ormai per poter tonare indietro. E il punto è che i sostenitori della Brexit ce l’hanno fatta con il 37%, ed è questo il punto cruciale su cui si muove la sarcastica novella di McEwan, che più che kafkiana, è swiftiana, tenendo ben a mente la satira politica contenuta in “Una modesta proposta“, quel pamphlet che Jonathan Swift scrisse nel 1729 e che McEwan lesse all’età di sedici anni. Quindi coniugando Kafka e Swift, antichi e indiscussi maestri, Ian McEwan ha scritto un racconto divertente, serissimo, ed estremamente efficace sul nostro tempo, sulla politica, sulla natura delle menzogne, sulla natura dell’uomo. Funziona in ogni sua parte, con il sorriso arriva la rabbia, con l’ironia, spesso la verità. Dall’esoscheletro di uno scarafaggio fuoriesce una materia biancastra, unico punto debole di una completa, totale metamorfosi. Ma la distanza tra blattodea e Homo sapiens sapiens, è stata fortemente ridotta, e in certi casi, quasi annullata, tanto che non si nota quasi più la differenza. “Se la ragione non apre gli occhi e non si decide a riprender il sopravvento, potremmo doverci affidare al conforto della risata“.
“La presente novella è un’opera di finzione. Nomi e personaggi sono il prodotto della fantasia dell’autore, e qualsiasi somiglianza con blatte autentiche, vive o morte che siano, è del tutto accidentale.”
Comunque, e in ogni caso, sforniamolo un altro capolavoro, forza, dai, Ian!!

                                                                                                                      (Stella Marina)


11  Giugno  2020

I   B A F F I

di Emmanuel Carrère


Me lo regalò una mia amica questo libro, tantissimi anni fa. “Leggilo“, mi disse, “è un libro pazzesco!“. L’edizione era quella dei tascabili Bompiani del 1990. In copertina il dipinto “ Le Pèlerin, di Renè Magritte. Lo lessi tutto d’un fiato, così come tutto d’un fiato, di getto, fu in realtà scritto. Carrère lo scrisse tra il 22 aprile e il 27 maggio del 1985, tra Biarritz e Parigi. Recentemente la casa editrice Adelphi ha deciso di pubblicarlo con una nuova traduzione e, ovviamente, con una nuova copertina ( “ Out of sight, out of mind “, fotografia dell’artista giapponese Kensuke Koike ). Così ho deciso di rileggerlo per la seconda volta e, nuovamente, sono stata folgorata da questo romanzo, da questo vertiginoso incubo alla Hitchcock.
Inizia così il libro, con una frase semplice e apparentemente innocua:“Che ne diresti se mi tagliassi i baffi ?"
Interno appartamento, di un giorno qualsiasi, a Parigi. E’ il marito che lo chiede alla moglie, mentre lei, seduta sul divano, sfoglia una rivista. Non c’è niente di allarmante, tutto tranquillo dentro la calma apparente. C’è solo una risata leggera a sollevare l’orlo di questa amabile tranquillità, e sottilmente la incrina, per creare quell’invisibile varco al dubbio che, subito dopo, avanzerà da lì, per conquistarsi il suo ruolo da protagonista. Un uomo dunque con i baffi, che se li cura con molta precisione e attenzione da sempre, quasi un momento di meditazione zen quello che riserva alla rasatura quotidiana della barba e alla cura dei suoi baffi, ecco, proprio quest’uomo, decide un giorno, all’improvviso e quasi per gioco, di tagliarseli. E’ sposato da cinque anni con Agnès, e lei lo ha sempre visto con i baffi, mai senza, da quando si conoscono, e lui li porta da ben oltre dieci anni.
Che sarà mai tagliarsi i baffi… Sembra un gioco quasi privo di rischi, al quale è facile porre rimedio in poco tempo. Eppure! Così lui si decide a dare inizio a questo gioco, un po’ incuriosito, un po’ impaurito, si lascia prendere la mano, e via, a piccoli ciuffi, sforbiciando, e poi, con sempre più precisione, con il rasoio, arriva fino alla pelle. A quel rettangolo di pelle, dove poco prima c’erano i suoi bellissimi baffi, che gli appare immediatamente di uno sgradevole pallore rispetto al resto del suo viso abbronzato. Questo piccolo, insignificante rettangolo diviene il luogo di ricerca disperata di sé, di una verità che sembra sfuggirgli di continuo, ingannarlo, deriderlo, metterlo a dura prova, sì, perché nessuno si ricorderà che lui , fino a poco tempo prima, aveva, portava i baffi. Nessuno si accorgerà del cambiamento, anzi, tutti concorderanno sul fatto che lui non abbia mai avuto i baffi. E sarà proprio la moglie a sostenerlo per prima. Sconvolgente è scoprire che nessuno abbia mai fatto caso ad un dettaglio così evidente. Ma perché?
Sarà un gioco architettato dalla moglie insieme ai suoi migliori amici per deriderlo, sarà un complotto, l’inizio di una delirante follia o il segno evidente di un esaurimento nervoso? Perché, nessuno, nemmeno con prove evidenti, vuole più affermare l’esistenza di quei suoi ex- baffi. Lui i baffi, per tutti, non li ha MAI avuti. Cresce così, lentamente un’angoscia silenziosa, rabbiosa, su questo dettaglio ridicolo e quasi insignificante. Eppure l’attenzione è tutta concentrata su quel dettaglio, l’amore si muove lungo quel perimetro rettangolare, si muove pericolosamente lungo i suoi bordi scivolosi, costringendo il nostro giovane architetto a non fare passi falsi, a mantenersi in equilibrio, nonostante l’evidenza di un pericolo crescente, di qualcosa che potrebbe travolgerlo all’improvviso, e condurlo in luoghi oscuri e poco conosciuti, sospingendo il gioco fino alle sue estreme, insondabili, pericolose conseguenze. “…sapevano che non dovevano smettere di fare l’amore, di toccarsi, altrimenti non avrebbero più potuto credersi e nemmeno parlarne. L’indomani mattina, se si fossero separati, tutto rischiava di ricominciare, non poteva che ricominciare.“
Sarà lei ad essere la colpevole? La sua fragilità, le giunture sottili, la sua mente sottile, sottile anche il confine tra la sua vivacità di spirito e l’insensatezza che sembrava divorarla. Certo, lui l’avrebbe strappata dai suoi demoni e riportata in salvo, a riva, con tutte le sue forze perché l’amava, lui l’amava moltissimo. La realtà sembra sfuggire, liquefarsi, le prove possibili della colpevolezza di lei, sembrano però non trovare mai una conferma, mai una reale prova alla quale inchiodarla. Forse allora in pericolo è lui, e non lei. Forse il problema è lui, è dentro di lui, tutto forse è unicamente nella sua mente. Forse è soltanto il sogno di un incubo. O forse è veramente un incubo, e la realtà ha iniziato a sgretolarsi, a mostrare il suo lato incongruo. Per quanto si ritenga di conoscere a fondo una persona, ci sono sempre degli spazi vuoti, dei salti nel buio, delle zone impenetrabili e misteriose. Ma le stesse zone impenetrabili si trovano abbondantemente anche dentro ognuno di noi, forse lui è davvero giunto in uno di quei vicoli ciechi dentro se stesso, da cui non è più in grado di uscire da solo. La realtà da lì gli appare distorta, i volti assumono tratti beffardi, simulano tacite complicità, desideri di annientamento. Raffinate e strategiche macchinazioni, elaborate al solo scopo di distruggerlo. Tutto è minaccioso e ostile, visto dalla distorsione di un incubo, dalla sospensione della routine quotidiana.
Forse allora un luogo dove poter ricominciare, per lasciarsi tutto dietro le spalle. Forse la città di Hong Kong, con le sua doppia sponda, e la traversata perpetua da riva a riva, abbandonandosi a quel cullare quotidiano del moto di un traghetto? Propio lì, dove nessuno è al corrente della storia dei suoi baffi e dove nessuno sembra davvero interessarsi a lui, alla storia della sua vita. Lì, dove non esistono la necessità e l’urgenza di dare o ricevere spiegazioni, dove il dubbio perde la sua arrogante potenzialità. O forse no. Non sarà, non potrà essere così, non basterà ormai più far ricrescere i baffi in terra straniera, e cancellare così tutto quel brutto periodo dall’inizio di quel beffardo, rivelatore gioco. L’incubo potrebbe tornare nuovamente, e riflettersi questa volta in una luce acquatica, scura e riposante, prima di striarsi di rosso, dietro quelle palpebre chiuse e contratte per il dolore, nella completa solitudine di un possibile gesto di rivendicazione di sé, di definizione di se stesso, fuori dall’altrui sguardo, dall’altrui opinione, sentenza, delimitazione. O forse solo un grido, l’ultimo grande, disperato grido, nel mondo degli assenti.
Direi un romanzo perfetto. Eseguito alla perfezione. Bravo, davvero bravo qui, in questo libro, Emmanuel Carrère ! Impeccabile nell’esecuzione, forse se ne dovrebbe ricordare sempre di che cosa è stato capace di scrivere nel passato...
                                               (Stella Marina)


11  Maggio  2020
CANTICO DEI CANTICI
di Gianfranco Ravasi


In questi tristissimi giorni di tempo sospeso, che può però essere anche vissuto come un tempo di grande e attenta riflessione personale, poche letture mi sono state davvero di conforto. Molto spesso la poesia, alcuni classici che ho riletto con molto piacere, credo principalmente per riascoltare il pulsare della mia vita di allora, quando magari li lessi per la prima volta e la lettura si mescolava alla vita, all’intensità della vita, e alla libertà. Libertà di movimento, di potermi muovere e respirare all’aria aperta, senza alcun confine, senza alcun limite. Sono giorni strani questi, di dolore, paura e incertezza, che hanno in sé però, anche una loro profonda bellezza, lo scoprire l’essenziale di cui siam fatti, ad esempio, misurandone la resistenza e la tenuta. Una educazione all’attesa, al valore di ogni singolo istante, al valore di ogni persona, di ogni singola vita. Mi sono così ritrovata a ripensare al Cantico dei Cantici, a quella prima lettura che feci diversi anni fa, attingendo dalle parole di Guido Ceronetti, per avvicinarmi in qualche modo ad uno dei testi più misteriosi ed affascinanti della storia dell’uomo. Questa volta invece, mi sono fatta guidare dalle parole di Gianfranco Ravasi, arcivescovo e biblista, teologo ed ebraista, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura. E non perché volessi o desiderassi una interpretazione “religiosa“, perché, per fortuna, non lo è. E’ una interpretazione, una “lettura“, che prescinde dalla religione, che sta nel senso delle parole, nella traduzione precisa delle parole, nei possibili significati originali della scrittura ebraica. Le chiavi di lettura del Cantico sono infinite, alcune affascinanti, altre più stravaganti e fantasiose, tanti si sono espressi sul suo significato ultimo , soffermandosi sui bagliori e l’attrazione dei simboli, sulle interpretazioni metaforiche, e hanno cercato, si sono affannati dentro e dietro le parole di questo magnifico canto d’amore fra due innamorati. Ecco, a me basta, almeno per ora, che questo sia semplicemente un canto d’amore tra due giovani, o meglio, tra due innamorati, dove il desiderio e l’eros, sprigionano la loro naturale e innata forza, dove l’esplosione della natura accende i sensi nel completamento dell’amore. Sono pagine piene di profumi, di odori, di movimenti sottili di quei vissuti che ci sono cosi distanti, quasi difficili da poter immaginare. Eppure, se in ascolto, se attenti, possiamo percepirli distintamente, quasi avendone una visione chiara. “Non c’è niente di più bello del Cantico dei Cantici“, scrisse Robert Musil ne “L’uomo senza qualità“, e lo stesso pensò Marc Chagall dipingendolo, riportandolo nelle sue cinque tele, così impastate di quel rosa carnale, poi stemperato dall’uso di quel bianco intenso, che riportava invece alla purezza della donna amata. E in effetti, se stiamo alla traduzione precisa, questo è il Cantico Sublime, il Cantico per eccellenza, non c’è niente, non esiste niente di più bello. Forse, e toglierei il forse, interrogandoci sul senso dell’esistenza, su come un virus in un attimo ci abbia stravolto la vita obbligandoci a ripensarla, ecco che il Cantico sembra invece ribadirne la forza, la prepotenza, la naturale essenziale bellezza, la necessità. E’ l’amore che si incarna e si rende vivo, e vivo vuol dire anche pericoloso; “Forte come la Morte è l’Amore! Ogni volta si rinnova, ogni volta compie il suo miracolo, perché ad esempio io non potrei essere qui a scriverne, se due giovani non si fossero un giorno innamorati, e la donna, mia madre, non avesse intonato il suo canto silenzioso, ricordandosi quasi senza saperlo, di queste prime parole. Che stanno sempre lì, a“ Mi baci coi baci della sua bocca :
sì, più soavi del vino sono i tuoi amori,/ soavi per fragranza sono i tuoi profumi (…)/ disposizione, sopra la nostra distratta vita:
Il magnifico assolo dell’ “ouverture“ iniziale, la voce di donna che si innalza nella celebrazione dell’amore, quasi a lei sia concesso per prima di intuire il divino presagio di qualcosa che sta per nascere e per accadere. Le parole ebraiche sono magnifiche, sembrano scelte con parsimonia dalla sovrabbondanza della vita, sia per contenerla che per esaltarla. Amato mio, ad esempio, è “dôdî“, con questo suono così musicale, così familiare, essenziale e intimo. Nel brulicare della natura e della vita di quel tempo, negli accampamenti, nelle città, Tirsa, Gerusalemme, Damasco, nel movimento naturale del quotidiano di allora, ricco e variegato, esce questa breve, intensa, parola. Inutile ricercarne l’origine, è una parola fluida, contaminata da mille culture che si richiamano l’un l’altra, che si sovrappongono e si negano, sotto il patronato ideale di Salomone, perfetto re e perfetto sapiente. Amato mio, dôdî, che è principalmente l’uomo, l’innamorato, ma anche il padre, l’essere maschile. L’inebriante bacio iniziale, fatto di ardore ed ebbrezza, quell’estasi dell’amore che ricorda l’estasi che anche il vino, il buon vino, può, riesce a procurare. Assaporare il vino nella Bibbia è simbolo di ogni piacere, di ogni delizia e gioia della vita. (Non mi prendete alla lettera eh, si parla di qualche bicchiere, suvvia!). E poi c’è quel magnifico “dôdîm“, ad indicare gli amori, le carezze, le tenerezze reciproche, il farsi, l’accadere  dell’amore. La stupenda radice verbale ebraica che pervade ed unisce tutto il Cantico: “dwd”, la radice dell’amore appassionato, che ha in sé, se vogliamo indagare più a fondo, anche la quasi crittografia di quel nome santo ed amato da ogni ebreo: dawid.
“Dodî lî wa’anî lô“, in traduzione: “Il mio amato è mio e io sono sua”. Questa la sintesi di questo libro biblico, che lo scrittore francese E. Renan, definì il “moment d’oubli“, quasi un attimo di distrazione, dei teologi giudei. O come disse Voltaire, “una rapsodia inetta e di poco conto ma che contiene molta voluttà. Ceronetti invece scrisse che “allusioni e sensi erotici coprono il Cantico come le efelidi il viso e le braccia di una donna dal pettine rosso“. Il Cantico dei Cantici è un magnifico e inesauribile spartito poetico, come qui dice Ravasi, sul quale continuare ad interrogarsi, “credenti o increduli, innamorati o delusi“. Ad Origene, il grande maestro cristiano di Alessandria d’Egitto, appartiene invece questa frase, sulla quale concluderei questa incompleta, parziale ed iniziale analisi di un testo che non finirà mai di sorprendermi: “Beato chi comprende e canta i cantici della Sacra Scrittura, ma ben più beato chi canta e comprende il Cantico dei Cantici“. Io non so se, come, e fino a che punto io lo abbia compreso, so soltanto che starci dentro, adesso, in questo momento, mi piace assai, ma proprio assai!

Leggetelo, se ne avete voglia, attenti alla suggestione di ogni singola parola, cullatela, trattenetela, ascoltatela. Inventatela di nuovo, createla come se fosse la prima parola nata al mondo, e la prima, da pronunciare in questo “nuovo“ mondo. Non c’è un modo giusto per leggerlo il Cantico dei Cantici, se non il vostro.                       (Stella Marina)


11 Aprile 2020
Un apprendistato o il libro dei piaceri.
di Clarice Lispector.

Certo, fu la copertina a colpirmi come prima cosa. Quel sole estivo che inonda un corpo di donna, e quel corpo che respira con tutta la pelle, in segreta voluttà, di fronte all’azzurro mare. In quel dipinto di Giuseppe Modica, che già richiama a quel piacere dei sensi, spesso presente nei suoi quadri: corpi nudi di donne sdraiate al sole o illuminate dal sole, mai troppo distanti dal mare.
Naturalmente mi piacque molto anche il titolo. Meglio comunque se letto in lingua originale, “Uma aprendizagem ou o livro dos prazeres“ (consiglio appassionato: ascoltate la pronuncia da un brasiliano vero - o brasiliana, ovviamente - e poi ditemi se non è meraviglioso!). Chiudo parentesi. 
Ma senza scrittura, tutto il resto non avrebbe avuto più alcuna importanza per me. Avrei facilmente dimenticato il libro, forse mi sarei ricordata solo del suono, di quel timbro melodico del portoghese. Ma Clarice Lispector sa scrivere, sa scrivere benissimo, lei “scrive“ magistralmente. Domina la scrittura, anzi, insieme alla scrittura lei stessa nasce alla vita, ogni volta, ricercandone il suo significato più intimo e misterioso. Fluisce tra il significato e il significante, tra spirito e materia, tra corpo e parola, tra il dolore e la sua redenzione, o possibilità di redenzione. Vive la sua esperienza del mondo, quella intercettata attraverso i sensi e quella percepita attraverso lo spirito, in quel suo sentirsi sempre creatura mortale, infinitamente piccola, incapace di dominio, di presa sulla vita che sfugge, e muta, e si rinnova, e che spesso è indecifrabile. Vive febbrilmente nel simultaneo, nell’istante, nell’invenzione dell’istante. Nelle epifanie di ogni istante. Questa storia d’amore che lei narra in questo libro, in un continuo flusso di pensieri inarrestabili, è un apprendistato, l’educazione attenta di quella parola fin troppo usata e abusata, pericolosissima in letteratura, ma ancora di più nella vita, che ha lati oscuri e imprevedibili, inconoscibili spesso, e mai quieti. Parola che non pronuncerò, dandola per sottintesa. Materia viva che qui si scontra con il dolore, la solitudine e il silenzio, prima di poter diventare passione, e, finalmente, piacere. Una creatura lunare Lori, la protagonista del libro, che cerca disperatamente di avvicinarsi, di rischiararsi alla luce calda del sole, alla prepotenza dei sentimenti. Imparando ad amare.
Lori quindi, che noi intravediamo tra le maglie serrate del racconto, in quei brevi riflessi che emanano dagli specchi, una donna attraente, ha incontrato un uomo che le piace, Ulisse (guarda caso, che nome interessante!). Ma non è cosi facile lasciarsi andare per lei, correre il rischio di vivere un possibile sentimento d’amore. Noi diveniamo i testimoni di tutti i suoi pensieri più intimi, ascoltiamo il rumore di quella mente che non smette mai di pensare. Mentre la voce di lui, più distante, ma serena, sicura, accogliente, è calma, nella sua attesa. Lei, per qualche decisione profonda, principalmente per paura, ha tagliato il dolore dalla sua esistenza, lo ha escluso, relegandosi in quella zona di mezzo, tra vita e possibilità di vita. Che forse è anche un territorio di conquista, o meglio, un territorio conquistato, con anni di esperienza e con esercizio costante. “Per tutta la vita era stata attenta a non essere grande dentro di sé, per non avere dolore“, no , “non doveva chiedere più vita “, troppo  pericoloso per lei, lei oramai  abituata a sentirsi viva solo attraverso il dolore. Ma Ulisse è bravo a parlare, bravo ad abbattere con assoluta dedizione tutte le paure di lei. A parlarle di allegria, di gioia di vivere, di quel sottile e inebriante piacere di farsi toccare e  penetrare da tutte le cose del mondo. A parlarle, a spiegarle anche del disorientamento che sarebbe comunque seguito all’accettare, a quel dire di sì, arrendendosi alla vita, con tutto il corpo, con tutti i sensi, con l’anima. Allo squilibrio che ne sarebbe conseguito per lei, al disorientamento verso la pienezza di vita: che avrebbe significato anche perdita, abbandono, solitudine. Forse nuovamente dolore. 
Ma l’amore quando arriva, travolge come un’onda in piena tempesta, tanto che Lori si trova a pronunciare, per intero, il suo bellissimo nome che è: Loreley. Lei finalmente è Loreley. Una donna che si sente travolgere da una nascente pienezza di vita, per l’amore di lui. Ma io mi fermerei qui, poco prima del suo stato di grazia, nel totale fulgore di un corpo che si sente vivo, e pronto, nello splendore dell’irradiazione che le cose e le persone proiettano adesso dentro il suo campo visivo. Nella luce di un vaso di vetro verde dipinto di bianco, un bianco opaco, pronto a riflettere l’allegra forza di tutti i colori. E Ulisse? “Io penso che“, …e le parole vengono a mancare,  nel confine impalpabile  dell’anima e dell’amore. Iridescenza di perla questa scrittura, che si tende verso l’impossibile senza mai esaurirsi, per compiere l’atto di consacrazione di un passaggio. E’ un’alba, la luce nasce da una luce più sottile, da ninfosi di crisalide.      (Stella Marina)

11  Marzo  2020
Il giorno mangia la notte.
di Silvia Bottani.

Nei giorni che stavo leggendo questo libro, mi è anche capitato di andare a vedere la mostra fotografica di Gabriele Basilico, fotografo milanese venuto a mancare alcuni anni fa. “Metropoli“ è il nome della mostra che  attualmente è  a Palazzo delle Esposizioni di Roma, e la prima città in cui il visitatore-spettatore si imbatte lungo il percorso,  è proprio Milano. “Questa città mi appartiene, e io appartengo a lei“, ha sempre affermato il fotografo. “Appartenenza“, che bellissima parola pensavo mentre osservavo  i magistrali scatti di Basilico, “appartenere a“, essere in comunione con, sentirsi parte vitale di una città, essere l’osservatore di tutti quei suoi continui cambiamenti, che raccolgono segni, trasformazioni, evoluzioni, involuzioni, che risentono del passaggio del tempo e lo assorbono, lo stratificano, lo sedimentano, lo rendono visibile. Ovviamente dietro ad ogni metropoli c’è la mano dell’uomo, che però nelle fotografie dell’artista non è più il soggetto, è spesso ombra, moltitudine indistinta, accenno di presenza, riflesso. E’ l’architettura della città ad essere il soggetto, ad aver assorbito tutta l’attenzione di Gabriele Basilico, nel suo splendore e nella sua desolazione, nella sua provocazione e in ogni suo silenzio. Tutto quello che rimane, tolto l’uomo, nonostante ne sia stato e ne continui ad essere l’artefice. Sono segni da interpretare, passaggi, e i vuoti ci appaiono quasi desiderabili, finalmente poetici. Evocano l’intensità della vita, la rabbia e l’amore, l’odio e l’ardore, lo splendore e la desolazione.  Sono visioni interiori che si rispecchiano nella materia che a sua volta prende forma e vita, direi anima.  Sono a volte segni appena percettibili di passaggi invisibili, impronte leggere. Eppure ogni impronta, pur lieve che sia o sia stata, vive in ogni architettura di città, nella sua sedimentazione antropomorfica. E da questa visione indistinta, dove il singolo non esiste più ma dove invece esiste la visione d’insieme, l’agglomerato e il paesaggio urbano, ho iniziato a percepire con sempre maggior precisione le voci di tre vite che all’improvviso mi son arrivate davanti,distinte, sempre più chiare, quasi le  potevo toccare. Le vedevo muoversi dentro quelle fotografie in bianco e nero, all’inizio erano poco più che ombre, puntini che avanzavano veloci in un piccolo spazio, lungo esigue e anguste traiettorie in una Milano estiva che mi restituiva “l’odore dell’asfalto cotto dal sole“. Riuscivano a sfiorarsi senza mai toccarsi, senza vedersi, quasi al buio. Chiuse dentro quelle loro esistenze che forse non desideravano, dedite a quel loro movimento solo per rispondere inconsapevolmente all’impulso della vita, ma senza una vera direzione.  Cosa rimane, mi chiedevo, se nessuno proverà a raccontarle, dopo che il tempo ne avrà cancellato ogni memoria, e le tracce si sommeranno e mescoleranno tra loro, fino a riflettersi in quel bianco e nero di fotografia, o a volte in quei toni di colore più deciso, dentro quei paesaggi di silenzio assoluto. Ho pensato quindi a lei, lei che ha voluto davvero raccontarcele quelle tre vite possibili, forse inventate, ma questo non cambia affatto la realtà e la percezione della loro esistenza. E infatti le ho viste muoversi dentro quel paesaggio urbano, farsi presenza. Ho sentito e avvertito il loro grido correre lungo ogni strada che percorrevano, il loro dolore, e quanto la parola appartenenza possa assumere significati diversi e quanto possa essere ambigua, difficile da pronunciare, difficilissima da conquistare. A volte forse mai la si conquista davvero, o la si conquista provvisoriamente nella provvisorietà della vita. La scrittura di Silvia Bottani, al suo esordio, ha animato il mio punto di osservazione, portando davanti, dentro il mio sguardo, le vite di tre persone: Giorgio, Stefano e Naima. La parola appartenenza ricorre spesso e forse è il filo rosso che lega queste tre vite, ognuna disperata a suo modo e per motivi diversi. Naima, una giovane magrebina, me la sono immaginata esattamente come la splendida foto di copertina, che è un dipinto del canadese Tim Okamura: “The Defender”. Nel romanzo lei vive in un quartiere milanese in cui “il vuoto architettonico delle case di poveri rinfaccia al mondo le proprie miserie“, è una insegnante di sostegno alle scuole elementari, deve appunto difendersi nella città in cui è nata solo perché la famiglia di origine è marocchina, “ appartenere “ quindi  a Milano per lei  è una conquista quotidiana, mai scontata e mai facile.  Un personaggio interessante, forse quello in cui sono riuscita ad identificarmi di più, con quella sua rabbia sempre pronta ad esplodere, che la pratica di kickboxing tenta in qualche modo di tenere a bada. Giorgio, un cinquantaduenne fallito, con un matrimonio alle spalle, un ex buon lavoro alle spalle, la carta di credito sempre in rosso, un figlio ventottenne con cui non ha un buon rapporto. Davvero un personaggio desolante, cocainomane, dedito all’alcol, senza prospettive, estremamente solo, che gioca d’azzardo quando riesce a trovare qualcuno che gli faccia  credito, divorato da un entusiasmo febbrile per qualsiasi  tipo di gioco, divorato da una “fame buia“ che lo tormenta e non riesce mai  a saziarlo.  Talmente mal ridotto da decidere un giorno di derubare una donna per racimolare qualche soldo, cento miseri euro. Un personaggio distruttivo, nel quale nessuno vorrebbe davvero identificarsi. Non fa neppure pietà, lo si vorrebbe abbandonare ad un angolo di strada come il peggiore dei mendicanti, perché oramai nulla sembra davvero più toccarlo. E quel suo gesto sconsiderato, quello strattonare per strada quella donna “extracomunitaria“, avrà anche tragiche conseguenze. Ma neppure in quella circostanza lui avrà, proverà pietà, continuerà a progettare quel suo blando e insensato sogno di rimonta, rinascita sociale, senza però crederci davvero fino in fondo, senza far nulla perché possa davvero cambiare qualcosa nella sua vita. Un bugiardo irrecuperabile, sempre a batter cassa dal figlio, forse ancora innamorato della ex moglie che oramai, e comprensibilmente, lo disprezza. Vorrei davvero dimenticarmelo, non provare nessuna pietà.  Escluderlo dal resto della storia perché per lui non c’è proprio più nessuna speranza. Ma non ci sono riuscita, ci ho provato con tutte le mie forze ma non ho potuto smettere di seguirlo in quel suo cammino perverso e totale di annullamento di sé, lungo quei “binari brillanti del tram che percorrevano le vie come fossero vene“ accanto ai quali il suo passo si è trascinato un giorno dopo l’altro, in quel suo lento scivolare verso il precipizio  senza alcuna dignità ma con  la forza di tutto il suo disastro esistenziale. A chi appartiene Giorgio? Perché si è ridotto così senza quasi più essere capace di provare dei sentimenti? Il dolore assume quasi una forma geometrica, è il disegno di una linea retta che si interrompe per poi curvarsi, fino a spezzarsi in una “piega innaturale“. Con la morte tutto cessa, tutto si svuota, rimane una sottile vibrazione sulla superficie delle cose, dentro l’asfalto della strada, il rosso del sangue che poi il tempo schiarirà fino a farlo diventare trasparenza,  impercettibile ombra. Ma quella “piega“ è anche il centro da cui si origina e prende forma il romanzo, è il punto d’incontro di ogni personaggio con il proprio  destino, ed ognuno di loro  dovrà  farci i conti. E’ come una superficie riflettente, uno specchio che rimanda le immagini della propria vita, in una sequenza scomposta, irregolare, distorta nella quale recuperare il bandolo della propria esistenza potrebbe forse rappresentare la possibilità di salvezza o, al contrario, una perpetua dannazione. Una catenina con un ciondolo, una piccola mano aperta, “Khasma“, le cinque dita della mano di Fatima. Un amuleto. Gli oggetti hanno una memoria silenziosa ma tenace. Non possono parlare ma posso testimoniare. Possono raccontare una storia. Possono suggerirla facendo incontrare nello stesso punto vittima e carnefice. Disagio e odio. Rancore e disprezzo. Un padre e un figlio, quel figlio che si chiama Stefano ed è   figlio di Giorgio.  Animato dalla stessa fame assurda del padre, da un rancore antico che lo morde da dentro. E’ un giovane neofascista, praticante avvocato presso lo studio dei genitori del suo più caro amico, con cui condivide anche la politica. Con altri membri del gruppo vuole “ripulire“ Milano e l’Italia; “Mas, Memento audere semper“! Stefano ambisce a dirigere le azioni di questo partito, ha fame di potere, di azioni punitive, di lotta. Non si chiede se quello in cui crede sia davvero giusto, reagisce così al suo dolore, sperando di essere diverso dal padre, volendo esserlo con tutte le sue forze. Sente solo questo desiderio di “spaccare tutto e picchiare“, raddrizzare quello che a lui pare storto, e di farlo assieme ai suoi compagni con i quali si sente davvero vivo e  compreso, in comunione. Sembrerebbe anche lui un personaggio perduto o che sta per perdersi definitivamente, ma a volte un amuleto, oltre che essere un atto di accusa, e lo sarà, può trasformarsi per qualcuno anche in un portafortuna. Può brillare al termine della notte, frenare la disperata corsa verso l’abisso. Può far sì che il giorno mangi la notte, la ingoi, celebrando quell’attimo di totale appartenenza alla vita, che si riflette in quella sottile lama di luce che rischiara a poco a poco l’orizzonte. E proprio lì, dentro quel chiarore, luminosa, palpitante e primigenia, l’immagine dei corpi di due giovani amanti, immersi nell’acqua fino alle spalle. Sopra di loro lo splendore silenzioso della Via Lattea, in un istante che potrebbe sembrare, e a volte davvero sembra, eterno.
Ogni volta che guarderò le fotografie di Gabriele Basilico, avvertirò sulla superficie liscia delle immagini, lo scorrere “sottile“ di queste tre vite E di nuovo, nel gioco serissimo di una scrittura ben riuscita, la parola appartenenza ancora una volta per unire il lettore ad uno scrittore (in questo caso Scrittrice!), ma ancor più profondamente, per unire il lettore alla storia che è stata raccontata, e che lui (in questo caso una lei) renderà materia viva. Sarà quindi nuovamente vita, memoria, e traccia.   (Stella Marina)   

11  Febbraio  2020
Bebuquin o i dilettanti del miracolo
di  Carl  Einstein.

Carl Einstein lo conoscevo più come critico d’arte che come scrittore di romanzi, anzi credo che questo sia il suo unico libro di (quasi) narrativa e fu pubblicato nel 1912. Forse ha anche scritto qualcosa per il teatro, “La cattiva novella“ mi pare, ovviamente oramai introvabile. Di lui mi ricordo un libro intitolato “Scultura negra“, e un altro libro dedicato a Georges Braque, suo intimo amico insieme a Pablo Picasso, ma è soprattutto conosciuto per i suoi  libri sull'arte del '900.  Fondò con il pittore George Grosz una rivista di satira politica-sociale, la “Der Blutige Ernst“, ovvero “La sanguinosa serietà“. Persona interessante, anarchico quanto basta per destare la mia curiosità e meritarsi tutta la mia attenzione, ebreo tedesco costretto all’esilio in Francia, combattente nelle Brigate Internazionali della guerra civile spagnola, libero pensatore attratto dall’arte e dall’estetica, ma molto anche dalla filosofia e soprattutto dalla politica. Personaggi dell’assurdo, “dilettanti del miracolo“ vorticano in questo romanzo scritto con un linguaggio sperimentale che cerca di realizzare con la scrittura quello che il Cubismo aveva raggiunto, o aveva cercato di raggiungere, con la pittura. C’è un totale abbandonarsi all’assurdo e al movimento alògico della ragione, all’esperienza immediata di ciascuno. Singole superfici riflettenti che si fanno portavoce di punti di vista diversi. Con chirurgica violenza e eccezionale capacità di costruire visioni, come specchi che si riflettono distorcendosi di continuo, con una rivoluzione della sintassi, Carl Einstein ha scritto il suo “Bebequin“. Una boccata d’aria purissima da respirare di questi tempi, salvifica (concentrate tutta la vostra attenzione soprattutto su quella f, non accetto assolutamente errate interpretazioni!). Come frantumi di un lampione, schegge di vetro giallo trasparente, i personaggi si fanno avanti per presentarsi a noi che cerchiamo di visualizzarli, di afferrarli nella loro sfuggente indeterminatezza. “Io sono uno specchio, una immobile pozza scintillante di lampioni a gas, che rispecchia. Ma esiste uno specchio che si è rispecchiato?“, così ci urla Bebuquin fin dalle prime pagine, costringendoci ad entrare nel vortice esistenziale di domande, in quel luccichio del sembiante che si fa  visibile solo a tratti sulla superficie irregolare di una porzione di specchio, specchio che diventa l’occhio che guarda. E da dentro, l’accordo tra vita, sensi e immagine si fa dolorosa, quasi furente. La ricerca del difetto della logica ma soprattutto la paura di soggiacere ad un annientamento, fa bramare quasi la follia pur di evitarlo quel possibile annientamento. Sospinto da uno dei suoi interlocutori verso l’analisi del piacere, ad osservare la realtà da un altro punto di vista, Bebuquin cerca il miracolo, l’avvento di un uomo nuovo, una nuova creazione di sé, al di là delle ingannevoli simmetrie della realtà, cercando attraverso la visione di rompere l’equilibrata e rassicurante immagine delle forme. Le infinite suggestioni della fantasia creano visioni, distorsioni, l’immaginario danza sul filo dell’abisso, dell’irrealtà e dell’illusione. Ombre si accoppiano nude nell’oscurità, mentre la terra appare come un cristallo di fuoco e l’umanità fatta solo di vetro trasparente. Il periodo terrestre, opalescente come una pietra antica, dove si sommano le rivelazioni che si biforcano in strade, vie e sentieri, e si perdono, e si smarriscono, fin là dove si esauriscono le umane forze e tutte le domande. Le mete scatenano le forze e gli pongono termine; “morte e finitezza, tu sei la creatrice del lavoro nostro, alla fatica ci pungoli“. Sulla città della narrazione incombe lo splendente terrore degli specchi, la sottrazione di sé richiama a splendidi cieli stellati, mentre una sottile, quasi impercettibile vibrazione di ala, come un respiro che smetta di respirare per dimenticanza, smuove appena lo spessore plumbeo dell’ignoto.    
Bellissimo!                  (Stella Marina)

11 Gennaio 2020 ********* ODISSEA AMERICANA ******** di A. G. Lombardo ********* -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- E’ un’odissea jazz, tutta dark questo romanzo, in una Los Angeles estiva completamente in fiamme: fuoco, fumo, distruzione e morte sono ovunque. Odisseo però qui si chiama Monk, Americo Monk, e mi piace pensare che ci sia un qualche riferimento, più o meno velato, all’indimenticabile tocco delle improvvisazioni jazzistiche di Thelonius Monk, che poi il jazz è anche il modo di procedere di questa narrazione nel suo esasperato e mai appagato grido di rivolta contro ogni forma di repressione. Monk non ha una nave, ma semplicemente un taccuino blu consunto e pieno zeppo di fogli, su cui ricopia e appunta ogni segno, ogni mutamento scritto e inciso sui muri della città: graffiti, murales, disegni, simboli, ogni piccola silenziosa rivolta che lui è in grado di decifrare, alla maniera di un “anacoreta smarrito in un mondo profano“, come un semiologo-rabdomante mai sazio di rilevare tracce, direzioni, messaggi all’interno del tessuto underground di una città che sta per esplodere. Cammina senza sosta e senza meta con le sue Keds rosse che diventano di un arancione scuro nel riflesso del sole morente. C’è qualcosa che durante la lettura delle svariate e allucinanti avventure di questo Odisseo nero, ci avverte di trovarci all’interno di un tremendo fatto di cronaca, ce lo segnala l’improvviso apparire sul bordo della pagina di una Buick biancogrigia lanciata a tutta velocità oltre il rosso di un semaforo, inseguita da una macchina della polizia.” E’ mercoledì 11 agosto, è questo l’epicentro di tutto. “Ed è il 1965. Siamo quindi dentro quei drammatici cinque giorni dei fatti di Watts, nella sommossa razziale che scatenò l’inferno nella città. Monk si trova dentro queste giornate, con il suo taccuino ben stretto al petto, lontano da quella parte di Los Angeles in cui vive con la sua donna, Karmann, più a sud, verso il porto, dove container abbandonati, ripuliti e collegati tra loro, sono diventati la loro casa in bilico sul Pacifico. Ma la sua sete di decodificare messaggi, lo ha portato nuovamente lontano da lei, nell’esasperata atmosfera di gang, di razze che faticano a convivere accanto, in rocambolesche avventure e incontri in cui lui forse cerca se stesso e quell’incontro mancato con il padre, contrabbassista di discreta fama, che ha inseguito nella sua vita, più di qualsiasi altra cosa, la musica, abbandonandolo alla madre. Sembra quasi non ci sia via d’uscita da questo costante temerario andare, nonostante l’evidente preoccupazione per aver lasciato da sola la sua compagna, nel pieno di una festa, con “amici“ sempre pronti a sedurla e approfittare di lei. Il richiamo della città però sembra essere più forte, le sirene sono ovunque, sotto ogni forma possibile e lo irretiscono, lo attardano sulla via di casa, il suo taccuino registra spasmodicamente ogni fatto, di continuo. Lui ha ben chiare le energie dirompenti della città, conosce i suoi moti, i suoi simboli, le intricate interconnessioni degli eventi e dei segnali, i mutevoli equilibri del potere. Ma ogni volta che cerca di ritornare da lei, qualcosa lo distrae, lo riporta al centro del disastro, nel cuore della rivolta, al limite estremo della vita. Gangster, streghe, mangiatori di loto, Godzilla, immagini proiettate sullo scherma bianco di un vecchio cinema, tutti segni febbrili di una città in agonia, visioni psichedeliche sulla faccia in ombra della città, sotto la luce di stelle capovolte nell’asfissiante cielo d’agosto. Una galleria di personaggi nelle scorribande alcoliche di notti infiammate dalla forza invisibile di una città che decide all’improvviso di tradurre tutti i segni criptati in azione, una Babele segreta che si solleva dai suoi strati più occulti , mostrandosi in controluce, fino a far affiorare un gigantesco incubo, o forse, più correttamente, facendo esplodere tutti gli incubi possibili, liberati finalmente dal ventre fecondo di una terra madre, decisa, una volta per tutte, a sgravarsi di ogni peso nell’atmosfera incendiata da molotov in quella guerra senza fine, nella cruda disperazione di una lotta eterna, umana, e sempre uguale a se stessa. “Neri, messicani, gang, musicisti, graffitari, truffatori, pure i nuovi hippy, tossici, carcerati, gangster ... “, la città ha preso fuoco, brucia la terra sotto le scarpe di tela di Monk. E lui l’unico reporter di quanto sta accadendo, il testimone di tutta questa distruzione e il fedele interprete. Attraversa quasi indenne un bordello metafisico, con la speranza che davvero quella possa essere una delle sue ultime prove, e che dopo finalmente gli sia concesso di ritrovare l’abbraccio della sua donna e i battiti del cuore di quel figlio che sta per nascere; loro lo stanno aspettano là, vicino al porto, in quella casa sul precipizio di Slip Thirteen. E certo che lei lo aspetta, quale altra sorte è concessa a una Penelope innamorata? Lei fuma una Kent dopo l’altra, bevendo vino, per ingannare il tempo. Ma difficile e ardua è l’attesa, resa ancor più struggente da quel fonografo che suona la loro musica. Ma la memoria accidenti, proprio quando sono sul più bello, quasi sul finire di questo romanzo, crea cortocircuiti dai quali è impossibile difendersi. Proprio adesso che era andato tutto liscio, irrompono le parole di quel canto di Penelope di cui Margaret Atwood si è fatta portavoce. Un canto antico, vecchio come il mondo, al quale non so resistere: “L’acqua non oppone resistenza. L’acqua scorre. Quando immergi una mano nell’acqua senti solo una carezza. L’acqua non è un muro, non può fermarti. Va dove vuole andare e niente le si può opporre. L’acqua è paziente. L’acqua che gocciola consuma una pietra…”. Devo riprendere la rotta insieme a Monk, anche se preferirei consolare Karmann, e leggerle quel piccolo immenso libro della Atwood, perché lei interpreti nuovamente la storia dell’Odissea, a suo favore ovviamente, e ascolti quello scorrere dell’acqua, la forza dirompente che c’è in ogni donna. Ma devo sorvegliare Monk, si sta cacciando sempre più nei guai, e nonostante conosca tutti i segni, sono la loro evidenza adesso ad attrarlo, la verifica tangibile del loro male, di tutte quelle forze oscure che si sono radunate e sovrapposte per far esplodere quel contraffatto e artificiale cuore che pulsa al centro della città. Accompagnarlo fino a casa, seguirlo nelle ultime cinquanta pagine di questa odissea, quando oramai sono del tutto convinta che A. G. Lombardo abbia davvero scritto un gran bel libro. Un libro d’esordio, che potrebbe… Eppure cosa potrà mai succedere quando finalmente Monk e Karmann Gaia si riabbracceranno, e lui poserà quel suo taccuino blu di e da guerra sul comodino. Forse, e ometto i nomi, accadrà quel che deve accadere ed è giusto che accada in una storia d’amore come la loro, un po’ questo forse; ”mentre“ lei “si drizzava a sedere con l’elegante, bianca spina dorsale lievemente incurvata“, -che noi immagineremo scura, ovviamente,-“ Lei non lo guardò. Nudo voleva celarsi a lei, a un suo sguardo casuale. Ma “lei“ non si voltò. I capelli le si erano sciolti sulle spalle e formavano grovigli scuri e lucenti. Sembrava che fosse appena emersa dal mare, scompigliata da ore di ansimanti fatiche “… Non so davvero perché continuino queste interferenze, questa volta non è la Atwood, forse è la Oates. Sembrano davvero ostinate a volerci accompagnare verso l’epilogo di questo romanzo, accertandosi che questa volta la strada verso casa sia sicura, che né io né Monk imbocchiamo all’improvviso una strada diversa, finendo inghiottiti da qualche vicolo cieco. E’ soprattutto Monk a preoccuparle, disposto a tutto, proprio a tutto, pur di riprendersi il suo taccuino blu finito nelle mani della polizia, ma senza quel suo diario lui, si sa, non può e non è proprio capace di vivere. Forse in questo preciso momento John Coltrane sta suonando Summertime, forse sono io ad ascoltarlo o forse invece è Monk, mentre si dirige verso sud, intrappolato in una sorta di eterno limbo ardente, ma questa volta veramente e tenacemente diretto a sud, dove il Pacifico azzurro scintilla e sciaborda: “Summertime and the livin’ is easy/fish are jumpin’ and the cotton is higt/Oh your daddy’s rich and your mama’s good lookin’/So, hush little babby, don’t you cry….”. Così disse Atena, egli obbediva e gioiva nel cuore… (Stella Marina) ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 11 Dicembre 2019 ******* UN ALTRO TAMBURO ******** di William Melvin Kelley ***** ---------------------------------------------------------------------------------------------------------- “Avanzavano a ritmo lento ma costante, con gli occhi puntati in avanti e un po’ in alto, verso l’edificio della stazione da cui vedevano solo la cima della cupola di pietra bianca“. Ma non anticipiamo troppo. Partiamo da un punto cieco di questo romanzo che, che come sostiene lo scrittore Javier Cercas, è quel punto “attraverso il quale, in teoria, non si vede nulla. Ma è proprio attraverso quel punto cieco che, in pratica, il romanzo vede o, potremmo dire, il silenzio parla“, quindi partiamo da quel giovedì 20 giugno 1935, giorno di laurea a Cambridge, Massachiusetts, per il giovane David Willson. Ci ricordiamo così bene la data perché lui se l’era accuratamente appuntata sul suo diario; un giorno importante, un giorno da ricordare. Il padre gli aveva suggerito di annotarsi tutto di quei suoi anni di università, magari qualcosa di insignificante, o apparentemente irrilevante, poteva poi improvvisamente esplodere come una bomba a orologeria e divenire molto importante, il fulcro attorno al quale avrebbe poi potuto ruotare tutto il resto della sua vita. Direi quasi una profezia questa del padre, teniamola bene a mente, ci servirà! David era originario della piccola cittadina di Sutton, a circa una quarantina di chilometri da New Marsails, parte centrorientale del Profondo Sud; capitale Willson City. Salta subito all’occhio che il suo cognome è il medesimo del nome della capitale, infatti il nonno ne era stato il fondatore, il Generale confederato Dewey Willson. E dunque, cosa si può vedere da questo punto quasi finale del romanzo? Innanzitutto una sua visione d’insieme, dato che è un romanzo polifonico, ci consente di fermarci un attimo per ricostruirne tutte le voci e lasciare che le immagini si impossessino liberamente della nostra mente, che ci trasportino definitivamente nell’atmosfera di quella cittadina, a Sutton, negli anni ’50, dove si svolge principalmente la storia. Proprio da qui riusciamo a vedere distintamente quell’emporio alimentare di Thomson, dove si riunivano quotidianamente gli uomini del posto, appoggiandosi al muro o sedendosi scompostamente sulla veranda. E’ qui infatti che si commentavano i fatti quotidiani, il punto di ritrovo di tutti i perdi giorno. Ma qualcosa un giorno lì davvero accadde, un giorno di molti anni dopo quelle note scritte da David sul suo diario, qualcosa di incredibile, impensabile, inimmaginabile, a cui si doveva assolutamente trovare una spiegazione; “forse per quei neri è davvero una questione puramente genetica, hanno qualcosa di speciale nel sangue“. Perché davvero se ne erano proprio andati via tutti quel giovedì pomeriggio, dal primo all’ultimo, all’improvviso, svuotando completamente la cittadina della loro presenza, senza dare una spiegazione a nessuno, ma dirigendosi il più in fretta possibile verso la stazione, e chi, dotato di automobile, correndo verso la strada statale che collegava New Marsails a Willson City. Sì, quello davvero era stato “l’inizio di qualcosa“, ma di cosa ancora precisamente, restava assolutamente incomprensibile ai più. Quelle zucche vuote, quei pelandroni, non riuscivano proprio a capacitarsi di quella nuova situazione, avevano urgentemente bisogno di qualcuno che li illuminasse; era rimasto l’unico stato dell’Unione a non contare fra i suoi cittadini neanche un membro di razza nera. Forse il signor Harper era l’unico in grado di dare una spiegazione a quell’evento, lui sì che aveva capito che quello era stato l’inizio di qualcosa, nel tardo pomeriggio di quella giornata memorabile “mentre il sole calava dietro le facciate piatte e umide degli edifici lungo la statale“. Era un militare in pensione, e da trent’anni la sua fedele compagna era una sedia a rotelle, anche se mai aveva combattuto una battaglia in tutta la sua esistenza. Ma aveva deciso che la vita non valeva la pena di essere affrontata in piedi, così si era seduto su una sedia a rotelle per non alzarsi più. O meglio, quasi più. Solo quel giorno, improvvisamente si era alzato, per andare con gli altri suoi concittadini e amici a vedere cosa stava succedendo alla fattoria di Tucker Caliban, da quell’uomo di colore, pronipote dell’Africano, con il suo stesso sangue e probabilmente gli stessi ideali di libertà ben ficcati dentro il cuore e la mente. E Tucker era là, il nostro personaggio preferito, colui che anima le pagine della narrazione, in quel pomeriggio che solo apparentemente assomigliava a tutti gli altri. Era là a cospargere di sale tutta la sua terra, con abbondanti manciate. In silenzio, senza proferir parola, con il sangue della vendetta appena dietro gli occhi. Sembrava quasi una semina, come se stesse spargendo cotone o mais, “ come se in autunno col raccolto dovesse guadagnarci bei soldi“. E poi un fucile. Poi, un’ascia. Siamo nel cuore della narrazione, c’è silenzio qui, quel silenzio di Javier Cercas, quello “che parla“. Un silenzio rivelatore, che lentamente scandisce una realtà che sta per cambiare, con tutta la potenza di anni e anni di sottomissione, di ingiustizie, di violenza impressi sul volto imperscrutabile e spesso assurdo della Storia. Tutto sembra condensarsi in quelle manciate di sale che diventano presente, si fanno presente, le sentiamo mentre vanno a ricoprire quei pochi ettari di terra, tre ettari per l’esattezza, conquistati con il lavoro, con la tenacia di un uomo deciso, che aspettava solo il momento giusto per compiere quel suo gesto; quella fine che segna un nuovo inizio, non solo per lui, ma per tutti quelli della sua razza. Lo vediamo - ne siamo come ipnotizzati - quel sale mentre cade abbondantemente dalle sue mani scure, trattenuto per un attimo nella cavità chiara del suo palmo, e quasi brillare, come per infondergli coraggio e audacia per quel sacrificio che va assolutamente compiuto e che sta per compiersi. E il sale scende come pioggia sulla terra, e la ricopre. Scende per tutte quelle cose che si sono perse, perdute nella vita. Subito dopo, il fuoco, mentre poco distante, “quell’avanzare a ritmo lento ma costante…”, in silenzio, ma pazienti, tutti, uno dopo l’altro, “come fossero chiusi in bare invisibili, senza più la facoltà di comunicare, con valigie o scatoloni o sacchetti della spesa o fagotti legati con lo spago “, tutti con indosso i vestiti buoni. “Quella marcia dignitosa verso un futuro possibile, diretta verso il Nord. Una croce luccica su quella terra diventata cinerea, un foulard di seta gialla risplende nel pomeriggio del Sud, le punizioni del passato ardono, bruciano, illuminate da un sole scuro, ”sospeso appena sopra l’orizzonte su un carro di nuvole“. I punti di vista si susseguono per dipanare e nuovamente intrecciare i fili della storia, le voci diventano un coro epico, il sacrificio una parola da rinnegare in una chiesa muta con “occhi asciutti come piccole pietre bollenti“. Vedo tutto questo in un presente senza tempo, da questo mio punto privilegiato di osservazione, e mentre rimango in silenzio, sento il coraggio ruggire come una tigre, e mordere, e osare, e rompere le catene di qualsiasi schiavitù. Osservo un tramonto mentre ho perso ogni punto di riferimento, credo di essere su una metropolitana, dovrei scendere, forse. Ma il sole sembra essere diventato così violentemente rosso, così luminoso contro lo scuro che cerca di inghiottirlo, proprio mentre la storia volge verso il suo epilogo. Vorrei scendere, ma non posso. Il mondo sembra quasi bello, adesso. Ah Tucker, ti ricordi anche tu di quelle parole pronunciate da Caliban nella Tempesta di Shakespeare? Avevano e avranno sempre questo suono bellissimo: “…that, when I wak’d, I cried to dream again“. (Stella Marina)--------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 11 Novembre 2019 ********* L’ORA DEL MONDO *********** di Matteo Meschiari.******* “Allora Libera. Per farla lunga e breve sei qui per aggiustare le cose. Devi cercare l’altro Mezzo Patriarca che dieci anni fa proprio il giorno in cui sei nata ha deciso di sparire. Buon per lui dirai tu ma male per noi. Da quando è scomparso ci stiamo lentamente e inesorabilmente dissolvendo. Ora dopo ora minuto dopo minuto il nostro potere ci abbandona. L’Uomo Ghiandaia non vede più così lontano negli anfratti dei mondi. L’uomo Luccio non sente più le centomila forme dell’acqua come prima. Insomma eccetera eccetera. Ecco. Devi andare. Devi ritrovarlo per noi perché si è rifugiato negli spazi degli uomini dove a noi non è dato viaggiare. Capisci? Devi essere tu.“ Il tempo della favola è un tempo sospeso, ed è dentro questa sospensione che si muove Libera nelle “Terre Soprane“ dell’Appennino tosco- emiliano, una bambina di dieci anni dai capelli rosso fuoco a cui manca una mano, una mano che non le è mai cresciuta. Proprio in seguito a questa mancanza, viene abbandonata molto piccola nel bosco dalla “madre“, ed è là che lei apprende la vita e a camminare a quattro zampe, così come aveva visto fare dai lupi. Ha la capacità di riuscire a parlare con le creature nascoste dei boschi, con Dei, semidei, e con tutti gli animali, ed è proprio per questo che le viene affidata la segretissima e non facile missione di ritrovare laggiù nel mondo degli uomini, nelle “Terre Sottane“, quel Mezzo Patriarca che se ne era andato via per sempre, compromettendo irrimediabilmente la vita di quei luoghi e di tutto quanto il pianeta. Sarà l’Uomo-Somaro, uno dei Sei Patriarchi, lo “Zio“, che la attende da novecentocinquanta anni, a spiegarle ogni cosa, una specie di guida in quell’intricato e complicato mondo della Natura, dove i miti e le leggende esistono ancora e che, incarnandosi all’improvviso, allungano le loro ombre su quei paesaggi segreti e silenziosi, in cui la vita sembra procedere diversamente da quella della città, che si intravede a tratti, laggiù, nel suo movimento confuso e convulso, sullo sfondo. Già l’inizio di questo racconto mi ha riportato a quei paesaggi a me molto noti e davvero molto molto cari, Femminamorta ad esempio, con le sue splendide foreste di castagni, cerri e abeti. Ricordo passeggiate lunghissime con mia madre in prati verdi e incontaminati sul finire del mese di agosto e nelle luminose giornate di ottobre. Quel frusciare inquietante di boschi impenetrabili dove io immaginavo abitassero creature strane e forse pericolose, in un misto di attrazione e repulsione. Certo che quei paesaggi allertavano e abituavano la mia mente ad uno sguardo mitopoietico, e non mi sarei affatto meravigliata a quell’età (che pressappoco era quella di Libera), di vedere un Patriarca in carne e ossa venirmi incontro chiedendomi di aiutarlo a riportare l’equilibrio sulla Terra, a provare a riaggiustare le cose in questo folle mondo dominato per lo più da umani scellerati. Non ci avrei trovato nulla di strano, anche se ancora non sapevo camminare a quattro zampe e non ero stata abbandonata nel bosco. Ci si innamora subito di Libera e le si vuole immediatamente un gran bene, del suo nome che così perfettamente la rappresenta, una creatura che sembra quasi un folletto, e ci ricorda momenti delle nostre possibili vite precedenti di cui abbiamo perduto ogni traccia e memoria. Lei sa ancora ascoltare la voce della Natura, perché della natura è un elemento, uno dei tanti, ed ha imparato a trovare umili rifugi nel cuore selvaggio del mondo, sapendo ancora godersi appieno il grandioso spettacolo dell’orogenesi appenninica come se stesse appena compiendosi davanti al suo sguardo, sguardo capace di conservare memoria di ogni cosa, di ogni lieve e silenzioso cambiamento di quel territorio avvenuto nel corso dei secoli, di quegli “abissi del tempo“ e di “qualcosa che non è luce e non è tenebra“. L’appuntamento con i Patriarchi, “i resti delle antiche credenze “, quelli che le affideranno l’ardua missione, è in cima al Monte Tignoso, lassù dove il brulicare delle stelle racconta di ere e di millenni, di Terra e Cielo, di spazi illimitati e lontanissimi. Ma se i Popoli si dissolveranno, gli Umani perderanno ogni cosa: “Senza di noi non sentiranno più nulla. Si chiuderanno in miliardi di scatole e questa volta per sempre. Il fuori resterà fuori. La molteplicità delle cose si azzererà. Il loro corpo sarà una coda del cervello. E non proveranno più niente. Credimi. Niente“ Certo che Libera acconsente ad aiutarli, è lei l’eroina di questa favola antropologica, di questo racconto dall’animo indomabile, l’essenza selvaggia che sfida l’ira degli Dei per mantenere una promessa fatta, a scapito della sua stessa vita. Dovrà confrontarsi con creature sacre, secolari, presenti dall’inizio dei tempi, sfiderà la loro rabbia, forza, conoscenza, il loro diniego, dovrà imparare a nascondersi, a proteggersi, a localizzare zone sicure, disegnare una mappatura mentale che la tenga lontana dal pericolo, da quei luoghi dove gli “Antichi“ non entreranno mai. Imparerà ad avere a che fare con “zone larghe“ e con “i punti piccoli“, con i Servitori Notturni e con le “Sedi“, soprattutto con le Sedi, i luoghi dove i morti riposano, e che sono anche soglie. Scenderà a valle, verso le Terre Sottane, per trovare il nascondiglio del Mezzo Patriarca, lasciandosi alle spalle i silenziosi rilievi appenninici, la verdeggiante epica delle Terre Sottane. Quel Mezzo Patriarca capace di essere uomo o donna a seconda delle circostanze sfuggito dopo aver visto le tremende giornate di guerra del ’45, incapace più di trattenersi e di credere ancora nell’importanza dei popoli, ormai si è nascosto per sempre in qualche giardino della città di Modena, ed è là che lei dovrà andare per implorarlo a ricongiungersi alla sua metà. La città non è luogo per Libera, per quella anziana bambina che si è fermata per statura e per aspetto ai suoi dieci anni di età anche se talvolta, quando pensa, una ruga molto antica le solca il viso; non sarà affatto semplice arrivare là per lei, ci impiegherà anni e anni, rimpiangendo i panorami appenninici e le albe dorate nei boschi. Troverà forse il Mezzo Patriarca mancante (questo non ve lo dico eh), comunicherà con uno scrittore di storie che misteriosamente sembra aver scritto l’incipit di questo libro, sarà comunque sempre quella brezza che spezza la spiga, come le aveva detto lo “ Zio “ in un giorno di appassionata dedizione. “Tu sei la brezza che spezza la spiga. Tu rompi il cerchio dei diecimila anni di schiavitù del pane. Entri nella testa della gente. E la gente si sveglia. “ Accoglietela! Accogliete Libera, a braccia aperte. (Stella Marina)---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 11 Ottobre 2019 *********** LA LINEA MADRE. *********** di Daniel Saldaña París**** ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Un libro sul dolore, la perdita e la memoria. E certamente, anche sulla crescita. Un bambino di dieci anni “ricorda“ (come possono “ricordare“ i ricordi) al suo se più adulto, un uomo di trentatré anni, - al quale è affidata la ”scrittura“ del romanzo -, quell’anno cruciale per la sua vita, l’anno del cambiamento e del lutto, (cruciale anche per la storia del Messico); il 1994. La madre nell’estate di quell’anno, un martedì forse di luglio o forse di agosto, comunque nel pieno delle vacanze estive, abbandona la famiglia per andare in Chiapas e unirsi alle file dell’Ejército Zapatista de Liberación Nacional. Non basteranno la rigorosa arte degli origami, la perfetta piegatura della carta e la ricerca della esatta simmetria delle forme né il tentativo di riuscire a distinguere finalmente il fronte e il retro di un foglio, a spiegargli l’incomprensibile della vita. Scoprirà che ci sono zone oscure, inesplorate e inesplorabili, private e segrete che non possono essere raggiunte, che rimangono senza spiegazione, inafferrabili, soprattutto per lui che ancora è un bambino. Inutile anche quel rifugiarsi in quella sua “Capsula a luminosità zero“, dentro l’armadio della sua camera, dove il buio totale sembra riuscire a proteggerlo da quell’abbandono e da ogni possibile pericolo esterno, soprattutto da quel temutissimo essere immaginario che lui chiama il “Rubabambini“. Ma il pericolo arriverà e si farà morte, trasformando quell’incerto abbandono iniziale, quella “forse“ vacanza in un campeggio, “in un abbandono definitivo. Le risposte sono sempre asimmetriche, tortuose e difficili. Traumatiche. Hanno bisogno di tempo, di forza e di dolore. Di coraggio. Di abitudine al silenzio, per imparare nuovamente a orientarsi nel mondo. Per questo lui cercherà ad un certo punto di sviluppare la parte sinistra del suo emisfero cerebrale, iniziando a fare tutto con la parte sinistra del suo corpo, eliminando completamente la parte destra, nel tentativo di sentirsi centrato, e comprendere quello che non era riuscito ad afferrare ancora e che continuava a sfuggirgli perché troppo complicato. Scriverne da una distanza di più di vent’anni, lascia alla storia quel respiro possibile per essere raccontata, perché “scrivere del passato è scrivere in dentro, non in avanti“, è comunque tentare di recuperare qualcosa che non è più come era in origine, ha confini meno definiti che si amplificano in una visione più ampia, forse più tollerabile. E dalla storia ricordata infatti escono anche altri volti, quello del padre e quello della sorella più grande, quasi assenti nel momento del più profondo dolore, quando in quei suoi soli dieci anni di vita lottava da solo per decifrare un’assenza, accumulando indizi in una strategia di sopravvivenza per soppesare la consistenza di una madre e avvicinarsi a quel vuoto indicibile e inconfessabile. Solo con quei pochi miseri ricordi che aveva di lei, e che non lo aiutavano affatto a delineare il ritratto di una donna non convenzionale, capace di lanciarsi a capofitto “sul dorso selvaggio della storia“, che rispondeva al nome di Teresa, seria, “con quel suo sorriso un po’ impacciato, che le torceva appena gli angoli della bocca“, con la sua laurea in scienze politiche che sembrava dispensarla dal dover essere quella moglie e quella madre che gli altri si aspettavano lei fosse, ma che lei mai avrebbe potuto essere o diventare. Per questo poi la sua fuga sembra quasi naturale, giustificabile, ancor più naturale quando la memoria della voce narrante si sofferma a ricostruire i tratti del padre, fino ad entrare dentro quelle dinamiche familiari, per spiegarne le fragilità e soppesarne la forza, in un’analisi a volte spietata a volte sfuggente. Si chiarisce mano mano che il tempo passa, e forse mai completamente, in un cerchio che non si chiude, dove agli eroi cadono le maschere, la possibilità di un doppio si infrange sul tessuto arido e vorace della vita, e le simmetrie scoprono il loro lato debole e illusorio, come in un gioco eterno di specchi dove non si riesce più a capire in quale punto esatto si concentri lo sguardo dell’osservatore. La traduzione del titolo mi piace molto, “La linea madre“, ed è esattamente quella linea che cerchiamo di individuare ogni giorno, che a volte è sottilissima, a volte apparentemente più forte. Sembra scomparire per un nonnulla, farsi incerta, beffarda, inutile e traditrice. Ma quando la luce è favorevole, sembra quasi una linea benevola, millenaria, che si ripete di generazione in generazione, con una sua ferrea e incontrovertibile logica. Non era semplice scrivere un libro così, facile cadere nello scontato, nell’ovvio, nel già detto. Con pochi tratti, pochissimi dettagli, l’autore è riuscito anche a raccontare la tragicità di un periodo recentissimo della storia del Messico, assolutamente da approfondire e da ricordare. Ottima la traduzione a cura di Giulia Zavagna. Leggerò ancora Daniel Saldaña París, sicuramente sì! ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ 11 Settembre 2019.******** 533 IL LIBRO DEI GIORNI ******** di Cees Nooteboom. -----------------------------------------------------------------------------------------------------------------Cees Nooteboom è un “giovane“ scrittore olandese di ottantasei anni. Giovane nel senso che non si è mai stancato di osservare e indagare con occhio attento e sempre nuovo il fluire delle cose e degli eventi. E’ nato il 31 luglio del 1933, e questo libro “533. Il libro dei giorni“, lo ha iniziato il 1 agosto del 2014 e terminato il 15 gennaio 2016. E’ un libro che ha scritto in “movimento“, in costante contemplazione di ogni sottile mutamento, di ogni annunciazione minima di cambiamento, metamorfosi, principalmente nella sua casa estiva sull’isola di Minorca, che sembra essere stata per lui, e continua ad essere, il punto privilegiato di osservazione e di scrittura, di trasposizione di questi suoi 533 giorni di note, riflessioni, letture, associazioni, flussi di vita, incontri. Davanti ai grandi fatti del mondo, spesso insondabili e inspiegabili, lui contrappone la bellezza dell’invisibile, la preziosità del quotidiano, l’impercettibile palpito degli esseri. Leggendolo, è ascoltare e sentire il rumore silenzioso di tutto ciò che ci circonda e che normalmente non ha voce è riuscire a fare vuoto e affrancarsi di tutto l’inutile e di tutte le inutilità che spesso riempiono le nostre vite, per riposizionarci in ascolto della natura, che di cose, in questo momento, ne ha davvero molte da dirci. Lo scrittore inizia con il raccontarci di cactus, dei quali si è innamorato in un viaggio nel deserto di Atacama, nel Nord del Cile. Dei suoi fiori selvaggi che fioriscono misteriosamente cercando la luce. E da lì, è iniziata la sua ricerca di piccole piantine da portare nel giardino della sua casa spagnola di Minorca per farle crescere. Gesti semplici che contengono tutta la ricchezza e semplicità della vita. E poi la capacità di trovare, da scrittore attento al linguaggio, le parole esatte e precise per descriverci questa piccola creatura assolutamente anarchica, quell’ essere bizzarro in perpetua contemplazione , ancor più assorto di un monaco tibetano, quella specie di “ oggetto che è verde, ha perduto la sua euclidea forma conica a causa di una quantità di tacche profonde, e che semplicemente se ne sta lì attaccato alla terra, pericoloso e possente, cercando di dimostrare sa il cielo cosa con gli aculei che gli crescono dappertutto e che in punta sono di un profondo rosso cremisi. Ma- lezione numero uno – non posso dire “aculei“, per quanto minacciosamente affilati e lunghi appaiano. Un cactus ha spine “. Perdersi continuamente nella contemplazione di queste piante, così diverse tra loro e divise in sottogruppi da renderle difficilmente identificabili, creazioni bizzarre della natura con quella ferrea volontà di esistere, in un silenzio assoluto, con una loro forma di bellezza inimmaginabile, pronta a mostrarsi e schiudersi all’improvviso, sembra davvero poter suggerire una possibile cura per il nostro mal di vivere e di questo nostro vivere male di cui noi siamo i folli, e temo anche, gli ultimissimi portatori. Nooteboom si interroga sul motivo primario del loro essere, risalendo attraverso il tempo, avvalendosi di svariati volumi di botanica per identificarne la loro prima comparsa sulla terra. Ma il loro segreto è insondabile, attaccato così indissolubilmente a quelle loro spine da non concedere nessun ulteriore approfondimento o chiarimento. Accanto a loro in giardino si muovono in silenzio e indisturbate, famiglie intere di tartarughe, creature ancor più insondabili ed antiche, in quel loro testardo e ostinato movimento lento, in quella loro quasi totale mimetizzazione con la terra, con quelle corazze tatuate sulla schiena come antichi guerrieri che hanno attraversato indenni secoli e secoli, e che mai però si sono decisi a togliersi quelle loro potenti armature. E se quella frase di Voltaire “il faut cultiver notre jardin“, fosse invece da interpretarsi adesso al contrario, come da decodificare davanti ad uno specchio, e dal “giardino“ noi venissimo finalmente e nuovamente plasmati, educati, se solo riuscissimo nuovamente a porci in ascolto? Quindi riposizionandoci in una posizione non più centrale (e dico finalmente!) rispetto a tutto il resto del mondo? Ricordo mio nonno materno, figlio dei primi del ‘900, la sua costante fatica nel coltivare ogni giorno la terra, la bontà di certi frutti mai più assaporata, il vino rosso sulla tavola con la tovaglia verde di cotone spesso a quadri bianchi, fresca ogni volta di bucato, le mani piene di rughe e di ferite sempre aperte. Ma il pane era bianco e ben lievitato ed era buono per una settimana intera, il fuoco acceso, intorno alla tavola la famiglia celebrava il raccolto, felice della luce della sera che scendeva a benedire un altro giorno di fatica. Quando mio nonno compì settant’anni, io ero molto piccola, ma riesco ancora a vedere e ricordare nitidamente quella sua luce negli occhi a fine giornata, la trasparenza dello sguardo di chi aveva faticato in armonia “con“ la natura. Leggendo queste pagine non ho potuto evitare di pensarlo, di ricordarlo. E anche lui, nella sua scrittura incerta e sgrammaticata, la sera si sedeva a scriveva delle note sul suo quaderno. Erano conti scritti a matita, resoconti di raccolti, di semina, di date auspicabili per la vendemmia. Possibilità di innesti. Ma c’era anche la voce del vento, l’impeto della pioggia, lo splendore improvviso del sole, l’urgenza di far crescere i figli, la fragranza del pane e il giallo spesso e luminoso della polenta sul tagliere di legno scuro, la pelle liscia e bianchissima di mia nonna che lui amava follemente, qualche poesia scritta di suo pugno o ricopiata da qualche libro dei figli. Non c’erano certo riferimenti colti ad Elias Canetti, né tantomeno a Joyce, o Borges, di cui invece Nooteboom riporta pensieri e idiosincrasie. Lo sguardo dello scrittore si fa spazio fin dentro la letteratura più complessa, per percepirne la forza, la sostanza, come se solo dentro quella sua casa sull’isola lui riesca ogni volta, e meglio che altrove, a comprendere i suoi simili, da una certa distanza di sicurezza, immergendosi nella cura del suo giardino che quasi spontaneamente si modifica da solo, quotidianamente. Sono le parole le uniche testimoni di queste piccole nascite e morti, di quegli attacchi silenziosi e violenti che la natura crea di continuo, di quegli agguati invisibili di cui si nutre il mondo fin dalla sua origine. La visione si fa chiara, nitida, cristallina, essenziale, su questa porzione di terra in balìa del mare. Mentre i cactus lentamente crescono custodendo il loro inconfessabile segreto, scorrono nella stanza di lettura le pagine de “Il teatro di Sabbath“, una dopo l’altra nella loro sfrenata intrepidatezza e ferocia, fino ad assurgere, almeno davanti ai miei occhi, come a uno dei grandi capolavori della letteratura di fine Novecento. Materia umana che vibra sottopelle, codice segreto dell’irrequietezza intrappolato nelle maglie strette dell’esistenza. Risponderà però subito Gombrowicz con “Cosmo“, con la sua assoluta mancanza di compromessi, e il grido si fa lacerante. I passaggi delle stagioni ancora si compiono e si ascoltano nella vita di Nooteboom, lui riesce ancora a coglierne i confini, seppur sempre più incerti, sulla traccia appena delineata di questo secolo volto al collasso. Quello che per me è febbrile,urgente, irreparabile, per lui ha ancora un andamento possibile, la sua mobilità statica è perfettamente aderente al flusso della natura, lo tiene in equilibrio. Quella stanza che lui sa ricavarsi in ogni luogo dei suoi spostamenti, sembra ancora in grado di proteggerlo dagli eccessi, preservarlo da una apocalisse annunciata, da quella terra desolata su cui camminano in direzione dell’oceano, quel padre e quel figlio che ci ha fatto conoscere Cormac McCarthy con “The Road“. Sapersi prendere cura di un giardino, sembra alleggerire il senso di annientamento, celebrare l’unicità di ogni giorno, saper tracciare ancora le coordinate in un cielo stellato e individuare una ad una ogni stella, chiamandola ognuna con quel suo nome proprio ereditato dagli antichi greci. Quella forma scritta di destini che brilla ancora luminosa sulla volta celeste come una carta geografica tenuta aperta da una mano invisibile, ancora capace di indicare un cammino, o almeno una direzione per noi affannati naviganti di un mare in tempesta. L’incanto e la suggestione di certe forme asimmetriche su uno sfondo bianco, i minimi movimenti del tempo che trasformano impercettibilmente la posizione delle cose. I sogni che si aprono ad una forma di ubiquitas mentre in giardino la Yucca sussurra “più luce“, “ho bisogno di più luce“. Sono parole mormorate, ci vuole un udito sottile e allenato per poterle percepire. Fusi orari cambiano con il volo, punti di vista si assottigliano per farsi ipotesi, possibilità. Lingue diverse raccontano storie diverse, mentre l’autore trascorre ogni anno i suoi inverni nel Sud della Germania, leggendo libri diversi, autori diversi rispetto a quelli che legge quando si trova sull’isola di Minorca. Come se ogni luogo gli suggerisse traiettorie, forme linguistiche, lo predisponesse all’incontro con un certo tipo di scrittura, rispettando la sua disposizione d’animo e l’impatto di certi paesaggi sul suo sentire. Ogni luogo evoca una voce, un incontro. Ogni minimo spazio colloca l’attenzione su un punto diverso, ed ogni punto ha la sua parola, la sua lingua unica. Il sottofondo è un mormorio continuo di voci, che a volte solo la grande musica sembra riuscire a comprendere totalmente, innalzandolo fino al punto più lontano dell’universo, squarciandone per un istante il mistero e il monotono, compatto silenzio. C’è poi sempre il ritorno all’isola, alla sua isola, ogni anno da quasi cinquanta anni, in una ritualità dotata di un suo ritmo interiore e per questo, benefica. I 33 volumi della biblioteca di Babele di Borges perfettamente allineati sullo scaffale in lingua spagnola, volumi che avranno sicuramente impiegato il loro tempo a leggersi l’un l’altro reciprocamente, nell’attesa di quello strano soggetto chiamato uomo, che ricompare improvvisamente ma puntualmente nella loro silenziosa e imperscrutabile traiettoria. Si chiederanno ogni volta cosa quell’uomo abbia finalmente compreso in quel suo viaggio di mesi. Se sarà il medesimo degli anni precedenti, e se ogni ruga in più avrà davvero apportato più saggezza, o semplicemente più comprensione. Chamandosi Cees quell’uomo chiamato adesso in causa, la risposta è abbastanza scontata, questo libro ne è la testimonianza. Ogni giorno è un giorno di attenzione e di Cura. Di ascolto. Di conversazione con il silenzio, con il mormorio sottile e con le parole fragili, incerte, poco scontate e poco abitate. Con autori antichi la cui chiaroveggenza va reinterpretata, resa viva sulla strada dell’oggi, su quelle struggenti immagini della Terra vista dalla Luna, dove ancora sono visibili per noi, perché tutto in quelle immagini accade all’unisono, Omero e Ovidio, seduti a raccontare instancabilmente il destino degli dèi e degli uomini. E noi, tutti insieme, stretti attorno in un cerchio, incantati come bambini ad ascoltare e ad attendere, una qualsiasi miracolosa metamorfosi. E mentre ci chiediamo ancora: “Are we all alone?“, l’Oruga barrenadora de las palmeras, quella farfalla urugyaiana nera e arancione, sarà pronta per addentare ancora una volta e voracemente, le verdi e lucenti foglie di una palma. ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- -----------------------------------------11 Agosto 2019********** LA MILIZIANA*********** di Elsa Osorio ----------------------------- Era una domenica d’autunno del 1986. Forse pioveva, era comunque una giornata malinconica, di quelle che inducono a chiudersi in casa, magari a leggere o ad ascoltare musica. Ma Elsa Osorio non era da sola quel giorno, era con amici, a parlare di vita e di letteratura. Fu in quella circostanza che lo scrittore Juan José Hernández le raccontò di Mika, e il suo racconto sembrava davvero romanzesco, pronto per essere scritto o forse lui stesso lo aveva appena scritto e lo stava semplicemente nuovamente raccontando, a voce questa volta, e in confidenza, mentre beveva la sua tazza di mate. Solo più tardi la Osorio si rese conto che Mika era un personaggio reale e che la sua storia era assolutamente da raccontare, da divulgare, e che forse avrebbe fatto ancora in tempo ad incontrarla personalmente, se solo fosse riuscita a partire il prima possibile per Parigi… Immagino la fascinazione di una scrittrice davanti ad un personaggio di tale spessore, di tale vita e ideali, regalatole generosamente da un suo caro amico in un pomeriggio autunnale. Come poterla rendere vera e viva ancora, in un romanzo? Come far rivivere la potenza di quella donna, la sua storia, la complessità di un destino senza sminuirne nessun aspetto, riportandola sulla pagina più o meno nello stesso modo in cui era stata, aveva agito e vissuto? Certo è che una donna così non si può dimenticare, ti si imprime per sempre nella memoria . Ci avrà pensato a lungo Elsa Osorio, iniziando a raccogliere più materiale possibile sulla vita di Mika , iniziando a disegnarne prima tutti i suoi tratti essenziali, a grandi linee, per aggiungere poi i dettagli man mano che approfondiva le sue fonti e le sue conoscenze, che leggeva i suoi quaderni, man mano che le si avvicinava sempre di più, fin quasi a sfiorarla, a toccarla, e per davvero , solo per un soffio, ad incontrarla. Ma chi era Mika? Chi è per noi Mika? “Rivoluzionaria della prima ora, antifascista e antistalinista, ha camminato tutta la vita nel solco che aveva tracciato sin da bambina“, scrisse Le Monde nel giugno del 1992, appena dopo la sua morte. Mika, ovvero Mikaela Etchebéhère, ovvero Mikaela Feldman, nata in Argentina il 2 febbraio del 1902, e morta a Parigi nel 1992. Fin dall’infanzia il suo destino di rivoluzionaria è segnato, fin da piccola inizia a nutrire il desiderio di farla pagare a chi aveva fatto soffrire la sua famiglia, sfuggita ai pogrom e alla prigionia della Russia zarista ed approdata in Argentina, con il sogno finalmente di poter vivere una vita normale a Moisés Ville. Ma davvero fu così semplice la vita in Argentina in quei primi anni? Non fu in quel buio gennaio del 1919, in quella Settimana Tragica, che il governo argentino dette fuoco a diverse casa nel quartiere ebraico di Buenos Aires, massacrando con disumanità assoluta tantissime persone? Quale altra scelta poteva rimanere a Mika, davanti a tanto orrore, se non quella di optare definitivamente per una vita che le permettesse di combattere finalmente tutta quella disumanità, per tentare di riportare la vita su parametri di normalità ed uguaglianza? Era giovane, stava finendo il liceo, si sarebbe iscritta all’università, alla facoltà di odontoiatria. I giovani studenti come lei, volevano e sognavano un mondo diverso. Non fu difficile incontrare in quell’ambiente rivoluzionario Hipólito Etchebéhère, con quel cappellino da gaucho in testa, messo di traverso, con quegli occhi grigio azzurri profondi e luminosi, e innamorarsene all’istante. Anche lui mosso dagli stessi ideali anarchici e di libertà, pronto all’azione e all’insurrezione, scriveva i suoi articoli su “ Insurrexit “. Fu un incontro decisivo, non solo di due persone che si sarebbero presto innamorate, ma di due menti, piene di idee e di ideali, di valori, di passioni, di coscienza e conoscenza politica. A ripensare tutta quanta la loro storia, non poteva essere che così: loro erano destinati ad incontrarsi ed insieme affrontare quei momenti bui e tragici della storia mondiale, c’era solo da decidere da dove incominciare e dove andare. I salti temporali che caratterizzano il libro, con continui cambi di punti di vista, ricreano lentamente e con pazienza i tratti salienti della vita di Mika. Dall’adolescenza alla vecchiaia, passando per la morte. La totale dedizione ai suoi ideali, la forza ostinata di non perdersi mai d’animo, di servire fino allo stremo la causa della libertà per creare una società più giusta. Gli anni con Hipólito, “Hippo“, segnati dalla sua malattia, la tubercolosi, e tutte le forze spese per riuscire a contenerla, gli anni nel gruppo Que faire, del POUM nella guerra civile spagnola, al fianco e affiancata dai suoi miliziani di cui lei era la capitana. Buenos Aires, Parigi, Madrid, Berlino, la Patagonia, Sigüenza, lo studio, la formazione culturale e ideologica, la ricerca, la lotta. La rivoluzione. Appunti sparsi tracciati su un quaderno blu e poi ancora su altri quaderni, per quasi quarant’anni, scritti con penne di colore diverso, a volte inserendo fogli scritti a macchina, impressioni, ritagli di giornale, liste di cose da fare, commenti a libri, descrizioni di paesaggi e monumenti, di strade, di caffè parigini, il suo bisogno di pensare sempre a tutto. Sono anni cruciali per la storia del mondo. Non sempre è chiaro, e non lo è mai, quello che potrà accadere, facile sottovalutare situazioni, scenari politici e persone. L’ascesa di Hitler, ad esempio, sottovalutata da molti, ritenuta erroneamente e fatalmente, di brevissima durata. Ma la costanza e la lotta animano di continuo la vita di Mika e Hippo, per loro vale sempre quel loro motto: “ Per un rivoluzionario non ci sono vicoli ciechi, solo problemi da risolvere“. Quando poi lei rimarrà sola, perdendo l’amato compagno, il leitmotiv sarà sempre lo stesso, continuerà a risolvere problemi, ad affrontare a testa alta ogni difficoltà. E lo farà anzi con più determinazione ancora, assumendosi responsabilità, gettandosi con disperazione nella lotta armata, tenendo ben a mente le ultime parole di Hippo: “Tranquilla, Mikusha, tornerò. Dammi il tuo affetto e insieme rifaremo il mondo “. E terrà ben a mente soprattutto l’ideale rivoluzionario, la sola cosa che per lei conterà dopo la morte del marito. Sarà in prima linea con quei miseri fucili che avrà a disposizione contro le potenti mitragliatrici del nemico, sarà la capitana, sarà forte per gli altri più che per se stessa, sarà “madre“, sorella, compagna. Sarà nel freddo, nella fame, nel fango, nel terrore quotidiano, sarà vicino alla morte, in ogni istante. Sarà coraggiosa, in qualsiasi circostanza, anche quando sarà arrestata a Madrid nell’ottobre del 1937. Anche quando sarà “cacciata“ dalla guerra, dalla sua costante guerra perché : “Donna pericolosa, comandante dei rossi, ricercata dalla Direzione generale della Sicurezza della Repubblica, dagli agenti dello stalinismo feroce. “ Si imbarcherà da Marsiglia nel novembre del ’39 per tornare in una piovosa ed umida Buenos Aires. Solo a guerra finita, riuscirà a tornare a Parigi, che le era così cara e così piena di ricordi, finalmente a casa, in Rue Saint Sulpice. Ecco, ed è lì che io ancora riesco a vederla, con indosso il suo vestito color malva, con la gonna a ruota, quel vestito bellissimo che le aveva regalato Hippo e che le stava così bene e che lei, girando su se stessa, faceva ruotare. Lei mi guarda, mentre fa ruotare il suo vestito, questa volta solo per me, sembra felice mentre mi sorride, i suoi occhi incontrano i miei, siamo due donne che si osservano dalla distanza e impenetrabilità della nostra dimensione temporale, cerchiamo di comunicarci in silenzio le esperienze della nostra vita, velocemente, perché tutto possa essere contenuto e niente vada disperso. Ma mi feriscono le domande che insistentemente lei mi rivolge con quel suo sguardo attento e poco incline ai patteggiamenti: “Sei coraggiosa, tu? Sei capace di ribellarti, di non accontentarti, di vedere ancora le ingiustizie e di combatterle? Hai una chiara coscienza politica? Fai tutto quello che è in tuo potere per cambiare quello che non va?“ Vorrei risponderle, ma non posso. Vorrei dirle che tutto è cambiato, ma che in fondo tutto è identico a come lei lo ha lasciato. Vorrei dirle soprattutto che il nostro pianeta sta cambiando, e che ognuno di noi è in pericolo, ma che nessuno sembra farci troppo caso, così assuefatto dal quotidiano e dai problemi di poco conto e di scarsa rilevanza. Che questa nostra vita umana sul pianeta Terra sta per concludersi. No, non siamo stati capaci di amarlo, Mika, questo nostro viaggio su un pianeta sorprendente, che alterna la notte al giorno con quella sua vertiginosa bellezza. Rimangono le tue domande e certamente il tuo esempio, la tua vita spesa per tentare di cambiare le cose tra gli esseri umani, credendo nella giustizia, nell’eguaglianza tra gli uomini, in un mondo migliore, ma forse nulla può più essere davvero fatto, perché adesso non dipende più soltanto dalla nostra volontà. O capacità. O desiderio di cambiare il mondo. Sembra davvero essersi innescato un conto alla rovescia che stravolgerà ogni nostra percezione della realtà, che muterà l’aspetto di ogni cosa e noi non sapremo intervenire in modo coerente per riuscire a fermarlo, cercando di limitarne e almeno, di contenerne i danni. Non ne saremo capaci, non saremo in grado di farlo. Sono senza parole Mika in questo momento, e non ho armi possibili con cui combattere, o almeno al momento, non riesco a vederle. Non so quanto sia stata brava la Osorio a raccontare di te, e parlare di te non è affatto semplice, lo ha fatto sicuramente con amore, con stima, con dedizione romanzesca. Forse io però al suo posto, avrei voluto incontrarti, avrei voluto ascoltare la tua voce e avrei fatto davvero di tutto per riuscire a vederti. Ascoltarti ancora una volta mentre raccontavi: “Clavelin è morto. Aveva solo quindici anni“, che è poi l’ultima frase del tuo libro, quello che hai scritto tu. C’era un futuro ancora possibile in quella frase sai, che andava garantito a tutti e a tutti i costi, con qualsiasi mezzo, sopra ogni cosa. Vorrei tornare al tempo di quella frase, ed abbracciarti nella speranza di un futuro migliore. Se solo ci fosse concesso, ancora. -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 11 Luglio 2019.************** C A R T O L I N E.*********** di Annie Proulx.*********** Lo so, lo so, Annie Proulx ha vinto il Premio Pulitzer con “The Shipping News“, Avviso ai naviganti in traduzione italiana. Ma io già l’avrei premiata molto prima con questo suo “Postcards“, Cartoline, per Baldini Castoldi Dalai editore. Appena ho chiuso il libro, e cercavo disperatamente di non arrivare alla fine, due scrittori mi sono immediatamente venuti in mente: Faulkner e Steinbeck, insomma due miseri insignificanti poco noti scrittorucoli americani (ovviamente sto scherzando, sono i più grandi di sempre!) , di cui lei deve aver letto tutto o molto, metabolizzandolo, trattenendolo e depositandolo in singole immagine in fondo alla retina, come un tesoro da proteggere e da tener nascosto. Immagini che poi lei è andata a recuperare in quel suo sguardo silenzioso e attento che ha rivolto verso la terra del Vermont, trovando una potenza narrativa magistrale, difficilmente eguagliabile, dove gli echi dei suoi antichi maestri lasciano leggeri riverberi in sottofondo, come un tributo di riconoscenza e di continuità, ma reciproca, se si riesce a considerare il tempo un accadimento simultaneo. Come già anticipa il titolo del libro “Cartoline“, saranno delle cartoline a scandire il tempo di questo romanzo, che pur avendo un filo conduttore comune, pare volersi suddividere in brevi racconti, in brevi storie, dove cambiano ogni volta il protagonista e la prospettiva da cui si osserva. La prima cartolina è datata 1944, ed è indirizzata a Loyal Blood, Cream Hill, Vermont. Loyal e la tutta la sua famiglia sono i protagonisti evidenti del libro, Il Vermont, una regione del New England situata nel nord-est degli Stati Uniti, è il protagonista occulto, nascosto, che però incalza costantemente da sotto, mostrandoci ogni volta il suo multiforme e cangiante aspetto, i suoi condizionanti cambiamenti climatici. La prima cartolina ricevuta da Loyal, è della ditta Electroline che sembra in grado di proporre, e di poter garantire, la miglior elettrificazione per il recinto della loro fattoria. Corre l’anno 1944, anno ancora di guerra, la famiglia Blood manda avanti con sempre maggior fatica e con gravosi esborsi economici una fattoria, sono sempre indietro con le tasse e l’ipoteca, c’è bisogno costante di lavoro, di suddivisione precisa dei compiti, ognuno di loro è necessario per riuscire a vivere in quella terra paludosa prosciugata con anni e anni di assoluta dedizione e caparbietà. Loyal, oltre ad essere il protagonista del romanzo, è anche il figlio con più idee e più intuizioni, pronto alla modernizzazione, e tutto sembrerebbe davvero splendido se non fosse per una improvvisa e non meditata decisione di abbandonare la terra e soprattutto la sua famiglia. Una fuga in piena regola, subito, all’inizio del libro. La ragazza di Loyal , Billy, muore in circostanza imprecisate forse per un litigio fra loro, una caduta accidentale , o forse per un colpo di fucile, sempre accidentale, ma la colpa potrebbe ricadere su di lui, quindi decide di scappare, non prima però di seppellirla, murandola dentro un muretto in cima ad un bosco, che ricoprirà poi rapidamente con foglie secche, rami d’albero e sterpaglia. In questa febbrile velocità d’azione, germoglia l‘idea improvvisa di fuggire, di lasciarsi tutto dietro le spalle. Con la sua fuga lentamente e inesorabilmente crollerà tutta la famiglia e tutto andrà perduto, un solo anello mancante sembra davvero condannarla all’estinzione, alla sua inesorabile fine. Entriamo in queste prime pagine del libro, dentro la casa della fattoria illuminata dalla luce arancione di un tramonto che sembra renderla secolare e senza tempo, mentre la famiglia sta radunandosi alla spicciolata per la cena. Varchiamo la soglia con un senso di colpa, perché noi già siamo a conoscenza della decisione di Loyal, e mentre i gesti usuali di ogni sera sembrano scandire un ritmo e perpetrare una sacra tradizione, noi siamo in attesa di quelle poche parole che cambieranno, scardineranno ogni cosa. Ma l’autrice è brava, quelle parole le farà pronunciare quando noi già ci saremo seduti attorno alla tavola con tutta la famiglia, indugiando sul viso di ciascuno di loro, per imparare a conoscerli, e ben riconoscendoli subito dopo, già volendo loro un po’ di bene e chiamandoli per nome, senza confonderli. Mink, il padre, Jewell, la madre, e poi Dub e Mernelle, i due figli. Tutti intenti al pasto serale, mentre il piatto di Loyal rimane intatto, le dita macchiate ancora di erba, la faccia in ombra come una maschera tragica. Poi, quelle parole, come una sentenza. E così, si lascia tutto dietro alle spalle; “Gli strumenti per la caccia con le trappole, le piccole Jersey robuste, le due Holstein con le loro pesanti mammelle color carne, gli stracci unti di Dub, e l’odore di ferrovecchio in fondo alla stalla, il muretto lassù vicino al bosco. Quella parte di cose era finita. Era finita in un baleno“. Parte, tracannando una bottiglia di whisky freddo rubata al fratello, per non vedere, per non essere perseguitato ancora dall’immagine di quella casa e di quella stalla, visibili all’orizzonte “come navi nere in un oceano di campi “. Tutto quello che lui conosceva e che aveva amato fino a quel momento, e lo aveva amato tantissimo, era lì, e stava per scomparire per sempre. Quelli che rimangono, tutti gli altri quattro, appaiono subito nella loro fragilità, il padre ancora zoppicante e mal messo dopo essere finito sotto il trattore, il fratello Dub, ritenuto lo scemo di casa, con il braccio sinistro amputato sotto il gomito dopo esser saltato da un treno merci in corsa nel Connecticut , covando di nascosto il desiderio di sposarsi e di andarsene al più presto da quella casa. Loyal, fra tutti loro, era davvero l’unico che riusciva , senza sforzo, ad accollarsi i lavori più faticosi, l’unico che li poteva sostenere perché in fondo li amava davvero, perché la sua esistenza era quella libertà di poter vivere in campagna, immerso nella natura, la sola vita che riuscisse a concepire e ad immaginare, la sola che davvero desiderasse e in cui si sentisse vivo. Lascia dietro di sé, rabbia e disperazione, che esploderanno subito, soprattutto nel padre, non preannunciando niente di buono. I lavori dovranno essere nuovamente ridistribuiti all’interno del nucleo familiare, questa volta anche le donne dovranno accollarsi lavori più faticosi, e Mernelle, la figlia più piccola, dovrà abbandonare la scuola per qualche tempo. La vita di campagna è dura, ha i propri ritmi, esige costanti sacrifici per ripagare l’uomo con i suoi frutti. “Ovest. Quella era la direzione“. Era quello che Billy avrebbe voluto, un posto con locande sulle strade, un qualche lavoro bellico, dei bei soldi sicuri lavorando in fabbrica, riuscendo a mettere un po’ di soldi da parte. Magari anche cantare il qualche locale e uscire il sabato sera “coi capelli arricciati“. Sono pensieri che martellano e vorticano nella testa di Loyal, insieme ai ricordi, che non lo abbandonano mai in questo suo viaggio on the road, con quel “suo piccolo rotolo di soldi, soldi di campagna, banconote unte e flosce a furia di passare per le mani di meccanici braccianti, taglialegna“. Noi siamo nella sua mente, sentiamo il rumore dei suoi pensieri, mentre cerca una direzione possibile, un punto da cui poter ricominciare. E questa volta, da solo. Quel rumore cerca di essere il più possibile convulso, senza tregua, per non permettere al cuore di ricordare, guai a ricordare con il cuore, non può davvero permetterselo! Lui segue l’istinto, come un predatore o forse adesso più come un animale braccato. Fiuta l’aria e ingoia la strada, chilometri e chilometri di strada che lo porteranno sempre più distante, lontano, e questa distanza gli concede di poter nuovamente ricominciare a respirare. Attraversa la Pennsylvania, con la bocca piena di sabbia. L’unico mezzo che gli è rimasto per comunicare con la famiglia sono della cartoline, che lui invierà di tanto in tanto a casa, dando sue notizie, ma mai segnalando un recapito preciso o un fermo posta dove eventualmente poterlo rintracciare. E’ una comunicazione muta, unidirezionale, segnali di fumo lanciati nel cuore dell’America, un legame che non può spezzare ma neppure riannodare. Lui non saprà più niente di quello che accadrà alla fattoria, e le cose continueranno ad accadere, ovviamente, a spostare il loro baricentro per trovare nuovi equilibri. Gli altri invece, seguiranno più o meno tutti i suoi spostamenti, verranno a conoscenza dei suoi lavori, di quello alla fabbrica di aerei a Chicago, di quello di disboscamento nella Chippewea National Forest, e di tutti gli altri che seguiranno e si accavalleranno l’uno sull’altro. Lui è davvero un ragazzo in gamba, e diventerà poi anche un uomo, e un anziano in gamba, saprà cavarsela, più o meno sempre, in quella sua vita che lui, però, ha condannato alla fuga perenne per qualcosa che sa benissimo, nessuno mai scoprirà. E di cui forse, anzi, sicuramente, lui non è neppure colpevole. Ma con quella colpa però lui vuole vivere, non riuscendo a togliersela di dosso. Tenterà di placarla, di tenerla a bada con la rinuncia definitiva ad avere altre donne, rinunciando perfino ad avvicinarle. Forse una nuova terra, una nuova fattoria potrebbero davvero salvarlo, affrancarlo da questa auto punizione per non essere stato in grado di aver cura di chi aveva amato e continuava ad amare. Forse potrebbe ricominciare nel Minnesota, o forse, ma questo solo più tardi, nel Nord Dakota. La guerra intanto è finita, l’ha appena annunciato il presidente Truman. Un campo sterminato di pannocchie brilla e ondeggia sul filo dell’orizzonte; sono quelle della fattoria di famiglia, e da lì, sono visibili anche le montagne smerlate, un poco più ad est. Tutto oramai è così lontano, eppure così presente, vivido, sono visioni talmente nitide che gli sembra di toccarle, e gli appaiono in una successione di immagini come quelle di un album fotografico, si animano di continuo, riportando la quotidianità di gesti, di abitudini, l’intensità delle voci. E soprattutto quella luce arancione dentro la casa, capace ancora di emettere bagliori a così grandi distanze, di convogliare e attirare pensieri, di assorbire e trattenere vissuti. Ognuno dei Blood è rimasto intrappolato, chiuso nel proprio destino e nel suo sogno di esistenza, incapace di tendere la mano verso l’altro. Lingue di fuoco si sono poi sprigionate, divampando e bruciando, si sono mangiate ettari e ettari di terra, e quando non c’era più nulla da distruggere, si sono avventate, fameliche, su tutti i ricordi, su ogni parola pronunciata, su ogni singolo gesto. Infine hanno tentato, nella loro follia omicida, di annullare anche la memoria degli avi, ogni loro segno, traccia, impronta. Un deserto di vite possibili, cenere di tutto quello che c’era stato, un tempo. Ancora visibili rimangono quelle singole traiettorie, disegnate sulla terra ancora fresca, quelle loro deviazioni dal nucleo centrale, che hanno portato ciascuno, inesorabilmente, verso un punto di non ritorno. Ognuno di loro, a suo modo, è avanzato più o meno consapevolmente e più o meno velocemente, verso quella curva ignota da dove davvero pareva non esserci più niente, dove tutto era improvvisamente in silenzio e silenzio. Lo stupore e la meraviglia di fronte al nulla. In bocca però, ancora il sapore intenso di un frutto; una fragola rossa con la forma inequivocabile di un cuore.

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